Ansie, fobie, ossessioni ai tempi del Covid-19.

Intervista con Tazio Carlevaro

Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Il dottor Tazio Carlevaro ha cinquant’anni di esperienza come medico, di cui quarantacinque come psichiatra. È stato Direttore del Settore psichiatrico del Ticino settentrionale per sedici anni. Ha una formazione nella psichiatria sociale ma si è occupato di molti altri campi, come ad esempio la criminologia e la diagnostica dei danni cerebrali. È specializzato nei disturbi da ansia, dipendenze senza sostanza (in particolare il gioco d’azzardo, studio nel cui campo è stato un pioniere in Ticino) e disturbi ossessivo-compulsivi [1].

Stefano Bigliardi (SB): “Dottor Carlevaro, cominciamo la nostra chiacchierata con una definizione, precisa ma accessibile ai non specialisti, di ansia?”.

Tazio Carlevaro (TC): “L’ansia, o angoscia, è un fenomeno assolutamente normale, presente anche nel regno animale. Si tratta della reazione all’avvertenza di un pericolo. Si parla di paura quando il pericolo è noto, e di ansia quando la persona interessata non è bene in chiaro riguardo a quello che la minaccia. La compongono diversi elementi: la sensazione di paura, dei giudizi su quello che sta succedendo (e di solito sono giudizi di pericolo), dei fenomeni somatici come l’accelerazione delle pulsazioni cardiache, la secchezza nella bocca, il blocco dell’intestino o il suo contrario, la diminuzione della vista e dell’udito, e infine dei comportamenti mirati a sottrarsi alla sensazione di ansia stessa, che sono la fuga, la paralisi, o la richiesta di aiuto”.

(SB): “E lo stress? Come si rapporta all’ansia?”.

(TC): “Lo stress è una tensione psicologica, che spesso va di conserva con una tensione fisica, che di solito arriva durante uno sforzo prolungato, mentale o fisico. È qualcosa di positivo, perché ci aiuta a trovare le risorse per affrontare la situazione in modo costruttivo. Quando però ha una durata eccessiva, o è troppo oneroso per le nostre forze, oppure quando abbiamo l’impressione di non riuscire ad essere efficaci, subentra non tanto l’ansia, quanto uno stato di scoramento, che si avvicina sia all’ansia che alla depressione”.

(SB): “Definiamo, allora, la depressione?”.

(TC): “La depressione si caratterizza per un sentimento di profonda tristezza, e per il giudizio, da parte della persona in questione, che non ci sia più niente da fare: non ne uscirà più, e tutto quello che  aveva è irrimediabilmente perso. Anche in questo caso parliamo di un fenomeno presente persino tra altri mammiferi, come i cani. Per la perdita del padrone, per cambiamenti radicali nel modo di vivere. Lo stesso vale anche per gli esseri umani, dove però questo meccanismo psicologico può scattare anche da solo, senza una causa visibile”.

(SB): “C’è una spiegazione genetica per questi fenomeni? Esiste una predisposizione individuale? Inoltre, esiste una correlazione necessaria tra ansia e stress, uno ‘slittamento automatico’ in un senso o nell’altro?”.

(TC): “Si tratta di meccanismi che devono avere proposto un vantaggio evolutivo a livello di specie. Evidentemente, però, esiste anche una predisposizione, con una variabilità individuale. Questo vale per ansia, stress e depressione. Va detto che l’ansia e la depressione, quando si presentano, generano uno stress, difficile da affrontare, che può poi aggravare sia l’ansia sia la depressione. Capita anche che in particolari situazioni familiari il bambino non riesca a far sufficientemente suoi gli strumenti necessari per affrontare le forme iniziali di questi problemi”. 

(SB): “Quand’è allora che interviene il medico, e come?”.

(TC): “Il problema è di sapere quando questi meccanismi assumono una dimensione patologica. Evidentemente, questo dipende dalla persona. Esistono criteri di valutazione, ma in fondo è il giudizio del singolo a condurlo a chiedere aiuto. Ci sono anche dei test. Io uso la scala di autovalutazione della depressione di Zung [progettata dallo psichiatra William W.K. Zung (1929-1992), ndr], o il reattivo di Hamilton (HDR-S) [scala progettata dallo psichiatra Max Hamilton (1912-1988), ndr]. Si tratta di una serie di domande. Le scale sono frutto di statistiche, quindi la depressione (o l’ansia) è verificabile e persino misurabile, ma è la persona stessa che affinerà poi il racconto del suo vissuto, quando chiederà aiuto a uno psichiatra o ad uno psicologo per affrontare meglio il suo disagio. Il fatto stesso che ci si rivolga al professionista indica che si è superata una ‘linea di sicurezza’. Rivolgersi allo psichiatra non è come andare dal dermatologo. Spesso il soggetto ha difficoltà ad inquadrare quello che sta succedendo. È questa la prima cosa da fare con il professionista, capendo qual è la storia pregressa, che cosa sta succedendo, e quali sono gli elementi della personalità che si possono essere attivati o rafforzati per affrontare la situazione. Ansia, depressione o stress non vengono tolti, questo è impossibile, ma bisogna gestire tutto l’insieme in modo che la persona li possa affrontare. Le scale di valutazione, come quelle che ho citato prima, sono utili anche per mostrare al paziente che cosa è cambiato, dopo un po’ che si è iniziata la terapia, cosa che rafforza la sensazione di avere delle risorse che danno dei risultati”.

(SB): “Quali misure si possono prendere, e che cosa succede se non vengono prese?”.

(TC): “Dipende. L’ansia spesso riguarda situazioni di per sé non pericolose. O per cui le risorse ci sarebbero. Sono situazioni che possono essere riformulate in termini emotivamente meno carichi. A quel momento si possono affrontare gradualmente. La depressione è più complessa. Spesso, dietro, c’è un’immagine di sé irrealistica: di impotenza, di insufficienza, o di incapacità. In altri casi il disagio ha a che fare anche con la situazione in famiglia, o sul lavoro, o nella vita sociale, ecc. e in quel caso si cerca di capire come affrontare la situazione in questione. Oppure ancora le persone interessate fanno una vita poco sana e si può vedere di modificare lo stile di vita, per esempio imparando a rilassarsi. Infine ci sono dei farmaci che lasciano ‘riposare’ le emozioni e questo aiuta molto la ripresa”.

(SB): “Quindi le misure farmacologiche sono temporanee? Un paio di ‘parentesi biochimiche’ tra cui mettere la sofferenza mentre si va ad intervenire sul resto?”.

(TC): “Esattamente. O, per usare un altro paragone, sono come l’ingessatura nel caso di frattura di una gamba. La persona deve poter camminare malgrado la gamba rotta, senza provare dolore, senza peggiorare la frattura, e senza perdere la muscolatura del resto del corpo”.

(SB): “Mi permetta una domanda provocatoria, siccome è specializzato in dipendenze senza sostanze: la psicoterapia stessa può diventare una dipendenza?”.

(TC): “Sì, è possibile, specie in certi casi di terapia, se gestita male. Ci sono tuttavia situazioni che davvero richiedono un accompagnamento di lungo periodo. Lo scopo e il senso di una terapia, comunque, è quello di fare in modo che una persona si renda conto di essere efficace con i propri mezzi e che li usi. Io sono contento quando un paziente non lo vedo più; contento, ovviamente, non per antipatia nei suoi confronti, ma perché vuol dire che sta bene, che ha raggiunto un equilibrio migliore!”.

(SB): “Ci darebbe una definizione anche di fobia?”.

(TC): “La fobia è un’ansia intensa ed eccessiva di fronte a una determinata situazione o a un certo oggetto o animale. La persona fobica sa bene che si tratta di un’ansia eccessiva, esagerata, ma ha difficoltà a fare diversamente. Quindi cerca di evitarla. Vale per l’allontanamento da casa, per gli animali (ragni, cani, serpenti), i temporali, i luoghi elevati, l’esporsi a parlare in pubblico, i luoghi chiusi, ecc. Potrebbe essere normale avere dei dubbi, delle incertezze, rispetto a un oggetto o un animale, ma l’evitamento sistematico aggrava la fobia, e riduce l’autostima”.

(SB): “Le fobie come si possono affrontare? Con una terapia d’urto?”.

(TC): “Mai! Piuttosto con gradualità. Per esempio, in caso di fobia per i cani, occorre cominciare con un cane tranquillo. Io avevo una fobia del sangue, e l’ho affrontata andando a lavorare un anno in Pronto Soccorso. Con un ottimo successo. La gradualità dell’avvicinamento permette al soggetto di rendersi conto delle sue emozioni e dei suoi pensieri, di modo da poterli meglio inquadrare e affrontare. Per poi abituarsi. È spesso utile conoscere i fatti. Mi ricordo di una ragazza che aveva una fobia massiccia verso le lucertole. E la poverina viveva in campagna. La paura fobica riguardava il possibile morso della lucertola. Siamo andati a consultare un esperto di lucertole e rettili, che ci ha proposto di mettere un dito in bocca alla lucertola che aveva in mano. Lo abbiamo fatto, fiduciosi nella sua competenza. Ebbene: le lucertole non hanno denti. Una scoperta, anche per me. Che è stata molto d’aiuto nella terapia. Rimangono alcuni punti poco chiari. Non si sa perché una persona sia fobica rispetto a qualcosa e non a qualcos’altro. A volte ci sono degli eventi vissuti come drammatici. A volte invece arrivano senza una causa apparente!”.

(SB): “Quale pensa che sia la spiegazione evoluzionistica delle fobie? Se rappresentassero un vantaggio non dovrebbero, piuttosto, essere generalizzate e tendenti allo stesso oggetto per tutti?”.

(TC): “In realtà non è chiarissimo, così come del resto non è del tutto chiaro come funziona il cervello. Stiamo parlando di meccanismi che nel cervello avvengono a livello profondo, nell’ipotalamo (amigdala e ippocampo). Si osserva che a volte una specifica fobia, in una determinata persona, parte da un’esperienza. Anche in questo caso ci può essere una predisposizione individuale a unire un’esperienza carica di ansia ad un meccanismo semi-autonomo che da allora si mette in moto. Si può anche dire che, posto che una terapia funzioni, in fondo l’interpretazione dell’origine evolutiva o la storia individuale non contino molto”.

(SB): “Giusto un paio di giorni fa ho avuto uno scambio con la filosofa Nicla Vassallo [2] che poneva la domanda: quand’è che un comportamento come lavarsi le mani si qualifica come fobico? Non è che in tempi di pandemia certi comportamenti patologici diventano normali? Lei dove e come traccia la linea tra il patologico e il non patologico?”.

(TC): “I disturbi ossessivo-compulsivi in effetti sono fobie che si traducono in comportamenti ripetuti e spesso inefficienti, o dannosi, che servono a lenire l’ansia. Tra questi c’è anche la misofobia, la paura ossessiva dello sporco, che porta ad esempio a lavarsi le mani in modo abnorme. La differenza di cui mi chiedi è nota a tutti i miei pazienti. Capiscono che la differenza tra il disturbo ossessivo e la necessità di lavarsi le mani sta nell’ansia, e nel modo inadeguato che loro seguono, e nella incapacità di evitare di farlo, laddove non è necessario. C’è poi l’ambiente famigliare, che spesso sottolinea l’inadeguatezza dei comportamenti ossessivi compulsivi. Sanno anche che un comportamento assume una dimensione patologica quando è individuale, non riconosciuto come utile o necessario dalla società. Ci sono, invece, dei comportamenti che assomigliano molto a compulsioni ossessive, ma che sono accettati dalla società. E quindi non sono in un qualche modo devianti. Io non faccio rituali di pentimento per i miei ‘peccati’. Chiedo scusa, e cerco di riparare, e basta. La Chiesa, invece, ha il rituale della confessione. Ma se leggi un manuale rivolto ai confessori, ti renderai conto che già nel 1600 sapevano distinguere tra la richiesta ‘normale’ di confessarsi, e la richiesta ossessiva. Quest’ultima veniva rifiutata, e veniva classificata, presso certi teologi, come un ‘peccato’ (sfiducia nel sacramento della confessione)”.

(SB): “‘Ansia’, ‘fobia’, ‘depressione’, ‘stress’ … Tutti termini che le persone usano anche nella vita quotidiana, e immagino spesso non solo in modo approssimativo ma davvero a sproposito. Oltre ai tanti usi poco accurati che si fanno di queste parole, quali sono le nozioni fuorviate e fuorvianti, i pregiudizi, che affliggono l’idea che popolarmente ci si fa del Suo campo?”.

(TC): “Il primo aspetto profondamente sbagliato è l’opinione che si tratti di debolezze o fragilità. Non è vero, sono situazioni difficili in cui anche la persona più forte può venirsi a trovare. È come pensare che, se una persona si è rotta una gamba, allora le sue gambe valevano poco. Un altro pregiudizio comune è l’accostamento che si fa tra il disagio psichico e la malattia mentale. Quest’ultima esiste, ma è qualcosa di diverso”.

(SB):  “Parliamo della situazione presente. Intanto, come medico, Le sembra che le misure attualmente prescritte, in Ticino o in Italia, siano adeguate?”.

(TC): “Penso che al momento lo siano. Non lo sono state finché si è lasciato correre, il che è successo anche da noi. Per esempio, è stato autorizzato il carnevale di Bellinzona, con 40.000 persone rispetto a una popolazione di 300.000. Il risultato è stato il numero di morti più alto di tutta la Svizzera”.

(SB):  “Essere confinati a casa: quale può essere l’impatto psicologico o psichiatrico di questa situazione, in riferimento ai fenomeni e ai concetti che abbiamo discusso prima? Pensa che avrà ancora più lavoro, finita l’emergenza?”.

(TC):  “Penso che le persone lo abbiano capito e riescano a gestirsi abbastanza bene. Da noi non gira più nessuno, nemmeno di sabato e di domenica. A differenza dei professionisti che offrono servizi a cui al momento non si può avere accesso, come i dentisti (tranne in caso acuto), ma anche i coiffeur, non credo che io avrò più lavoro, a meno che la preoccupazione del virus non si trasformi in un fattore mentale paralizzante. Credo che dovremmo confrontarci con qualcosa che spesso ci nascondiamo. Siamo i padroni della nostra vita, certo, ma nella nostra vita, comunque, la casualità gioca un ruolo importantissimo, a volte preponderante. Bisogna rassegnarsi al “destino”, il che non vuol dire che non dobbiamo più agire. Diverso è il discorso per la depressione, che può essere un rischio: sento già persone dire che la situazione non finirà più, e cose simili. Certo, non hanno tutti i torti perché questa pandemia costerà enormemente sul piano umano ed economico e di questo c’è consapevolezza. Un clima psicologico quasi depressivo esiste, sul ‘dopo’ non saprei esprimermi”.

(SB): “Pensa che le persone con vivi interessi intellettuali, come Lei, siano psicologicamente meglio equipaggiate per affrontare la quarantena? O che comunque abbiano un vantaggio rispetto a chi si dedica soprattutto agli sport non praticabili in casa?”.

(TC): “Esistono persone che hanno bisogno di una grande attività mentale, e persone che hanno bisogno una grande attività fisica. Queste ultime avranno qualche difficoltà in più, a meno che non siano attrezzate a casa, per esempio con una palestra. Dai noi in realtà certe attività all’aperto e in solitaria, come le scalate, non sono proibite, ma sono sconsigliate, perché in caso di incidente in ospedale ci sono pochi letti a disposizione. Gli intellettuali, comunque, possono avere anche loro problemi particolari dovuti alla loro predisposizione psicologica, perché potrebbero, proprio in quanto inclini a pensare molto, sviluppare idee morbose, tristi. Un intellettuale infatti potrebbe percepire con maggior acutezza l’impotenza del genere umano di fronte al caso e alle logiche del virus. Ancora una volta si torna all’inclinazione individuale come elemento decisivo”.

(SB): “Non pensa che, se si andasse molto per le lunghe, la situazione potrebbe diventare insostenibile per tutti? Oppure confida nella plasticità della mente?”.

(TC): “Specie nel caso degli adulti, la cui plasticità mentale è ridotta, rispetto ai più giovani. Però posso fare un ragionamento basato su un precedente storico. Durante il periodo dei bombardamenti nella Seconda Guerra Mondiale, il numero di casi di depressione diminuì in modo nettissimo. La gente si preoccupava della sopravvivenza quotidiana e c’era anche una grande solidarietà tra le persone che si trovavano all’interno dei rifugi. La malattia mentale invece presentò tassi di incidenza normale. La pandemia potrebbe paradossalmente invece condurre a un rinforzo delle persone, se affrontata bene. Però, certo, dipende da quanto si prolunga la situazione e da che tipo di speranza possono dare le autorità. C’è stata tanta propaganda, negli anni passati, secondo cui lo Stato è un problema. Ora però vediamo che lo Stato serve e sta già distribuendo il denaro per chi ne ha bisogno. Capacità di intervenire concretamente e di dare speranza vanno di conserva, e hanno un importante impatto psicologico”.

(SB): “I bambini sono maggiormente esposti a rischi psicologici, in questa situazione?”.

(TC): “I bambini per lo meno hanno una routine scolastica, sia pure attraverso il computer. Poi, certo, si annoiano perché non si può uscire o andare dai nonni”.

(SB): “Nel Suo campo esiste una definizione tecnica anche di noia?”.

(TC): “No … La noia non è una malattia! Io magari la considero tale, ma è un problema personale … E comunque ne sono immune. Questo detto spiritosamente, però in effetti la domanda è degna di considerazione. Dovrei pensarci”.

(SB): “Ha cautamente menzionato le opportunità che questa situazione potrebbe rappresentare dal punto di vista psicologico. Ora, io so che Lei è anche un esperantista di spicco … Immagino quindi che avrà una visione speranzosa e internazionalista … Se la sente di sbilanciarsi sul virus, in questa vena? Faccio notare che insieme ai casi di solidarietà giungono anche notizie di ‘gogna’ sui social media riservata a persone di cui si dice siano infette, di insulti pesanti rivolti a persone uscite a correre anche quando le regole in merito del governo lo consentivano ancora, tanti episodi che fanno da contrappeso rispetto a certe visioni iper-ottimistiche. Come spiega questi fenomeni di disgregazione? Non rischiamo un bellum omnium contra omnes? Che cosa non Le fa perdere la speranza?”.

(TC): “In realtà non ho mai avuto una visione ottimistica. Sono piuttosto un realista. Ritengo che la solidarietà sia una caratteristica della civiltà umana odierna, che però doveva trovarsi già nei nostri antenati. Limitata però al gruppo sociale di appartenenza. Qualcosa che si riscontra anche tra i nostri ‘cugini’, le scimmie antropomorfe. Si tratta della capacità di unirsi tra persone che hanno un interesse comune: la difesa del territorio e degli individui, e l’acquisizione del nutrimento. Quindi credo nella solidarietà ma in chiave evolutiva, intesa come vantaggio. Se insorge il bellum omnium contra omnes è perché alcuni si rendono conto che sono privi di quel vantaggio. Qui l’aspetto istituzionale è decisivo: è qualcosa che può accadere se le leggi non funzionano più e si scatena il caos anomico. Succede se le persone hanno l’impressione che lo Stato o la polizia non stia facendo il suo lavoro e quindi si investono di quella parte, della parte dei vigilantes. Si formano bande, le une contro le altre armate. Se c’è un governo che fa il suo dovere, questo si evita. La risposta istituzionale è indispensabile. La democrazia è l’unica difesa contro questi pericoli, ma è fragile”.

(SB): “Si sentono spesso, e in particolare in questo momento, anche da parte di sedicenti medici, affermazioni piuttosto avventate su come le affezioni organiche, tra cui appunto la polmonite, abbiano in realtà una radice esclusivamente psicologica, e che quindi un rimedio vada cercato solo in quel regno, intervenendo puramente su emozioni e sentimenti. Ora, Lei comprende bene i meccanismi che collegano emozioni e salute, ed è al tempo stesso cauto sull’aspetto farmacologico per quanto riguarda le terapie psichiatriche. Ci aiuta a fare chiarezza rispetto allo ‘psicosomatismo estremo’ che riduce sia l’insorgere delle malattie sia il rimedio alle stesse alla sola sfera delle emozioni?”.

(TC): “Si tratta di posizioni che esasperano delle teorie che tanti anni fa, in medicina, erano credute vere. Tanti anni, ma non troppi, parliamo del 1970-1975: anche io mi ricordo di averle studiate: per esempio l’idea per cui l’infarto o il cancro insorgerebbero a causa di ‘conflitti’ più o meno inconsci. Sono credenze che distorcono, esagerandoli, i rapporti causali: è chiaro che una diagnosi di cancro non mette di buon umore. Analogamente si sosteneva, sulla scorta delle teorie di Bruno Bettelheim [psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense (1903-1990), ndr], in realtà un mistificatore, che l’autismo fosse ingenerato nei bambini da madri ‘fredde’, le cosiddette ‘madri frigorifero’: ma quelle madri erano ‘strane’ in risposta al comportamento dei loro bambini, incomprensibile e doloroso! Sono concezioni esasperate e fuorviate da cui si è usciti con l’osservazione empirica, aggiustando il tiro. Per esempio, per l’ulcera, inizialmente attribuita a fenomeni emotivi, ma poi curata asportando parte dello stomaco, si è capito che il batterio che la causava poteva essere affrontato farmacologicamente, in modo efficace, con un antibiotico. Lo psicosomatismo spinto all’estremo è solo la versione arcaica di teorie superate da lungo tempo, e che attraggono le persone perché sembrano offrire soluzioni facili, indolori, senza effetti collaterali”.

(SB): “Pensa che la religione possa aiutare, psicologicamente, o che possa essere controproducente, o tutto sommato che dia un apporto che non determina grandi differenze tra chi è religioso e chi non lo è?”.

(TC): “Premetto che sono un ‘libero pensatore’ nel senso dell’agnosticismo. Io non so se il Padreterno c’è o non c’è, ma sono incline a pensare di no. Ormai, la religione ha un ruolo ben ridotto nel ‘reparto medicina’, in cui è stata sostituita dalla scienza. Arriva il Covid-19, e chiudono Lourdes, e Piazza San Pietro è vuota. Se qualcuno proprio vuole rivolgersi a un santo o a Dio per chiedere la guarigione lo fa a titolo personale, non vedo incoraggiamenti in questo senso da parte dei vertici della Chiesa Cattolica, per esempio. È qualcosa che indica bene come, oggi, l’Europa non sia più ‘cristiana’ come certuni affermano. Poi, certo, una certa spiritualità, la pratica della preghiera, il sentirsi parte di una comunità anche se non riunita fisicamente, la speranza nell’aiuto di una forza superiore, di un padre amorevole, possono aiutare certe persone, ed essere di conforto”.

Note

[1] La conversazione si è svolta il 14 aprile 2020. La presente trascrizione, con aggiustamenti, è stata approvata dal Dottor Carlevaro, a cui va la gratitudine mia e della Redazione.

[2] Vedere il Dialogo con Nicla Vassallo pubblicato in questo numero.