Convivere con i coronavirus tra natura e cultura.
Le riflessioni di Francesco Cavalli-Sforza
intervista di Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Francesco Cavalli-Sforza ha studiato a Berkeley, Trento e Milano, dove si è laureato in filosofia. Divulgatore scientifico, regista e autore televisivo, docente di Genetica e Antropologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, conferenziere, ha firmato vari libri con il padre Luigi Luca (1922-2018), genetista di fama mondiale. Il suo libro più recente è L’inganno delle religioni (Codice, 2017) [1].
Stefano Bigliardi (SB): “Caro Francesco, che cosa ci insegna, o che cosa conferma, questa pandemia, dal punto di vista dell’evoluzione?”.
Francesco Cavalli-Sforza (FCS): “L’emergere di un nuovo virus ispira in me tante riflessioni, e condividerò soprattutto quelle che più da vicino riguardano le mie conoscenze. Non voglio fare come certuni, che al momento si esprimono nelle televisioni e sembrano sapere tutto, a volte finendo però per dire grandi sciocchezze perché parlano o di cose che loro non conoscono, o di cose che nessuno conosce. Quindi cercherò di astenermi dal condividere alcuni miei attuali pensieri che sono più che altro suggestioni di un non esperto. Se poi dovessi avventurarmi nel campo delle mere ipotesi o delle speranze vedrò di segnalarlo. Guardando la pandemia dal punto di vista della vita e dell’evoluzione, trovo interessantissimo (detto ovviamente con tutto il rispetto per chi del virus è morto o ne sta soffrendo) il fatto che abbia portato alla ribalta il virus come forma di vita. Una forma di vita minuscola che rappresenta, o sembra rappresentare, una minaccia tanto grande. In realtà credo che nel nostro genoma ci sia una quantità gigantesca di virus, più o meno neutralizzati, oppure che svolgono delle funzioni per noi utili, così come nel genoma ci sono tanti batteri antichi e fondamentali che sono entrati in simbiosi con noi: come i mitocondri o, nelle piante, i cloroplasti.
La pandemia mette in evidenza un fatto che io trovo importantissimo anche per capire la natura umana. Noi sappiamo che la vita si è sviluppata nell’oceano, e ognuno di noi è un oceano abitato dalla vita. Dentro di noi ci sono ben più microorganismi di quante non siano le nostre cellule, e questi microorganismi cooperano con noi a farci essere quello che siamo. Capire questo fenomeno ci può portare un enorme contributo di conoscenza, comprendendo che cosa sono i virus in rapporto alla nostra esistenza di organismi molto complessi.
Mi ricordo che, quando, nei primi anni Sessanta, studiavo al Liceo, il libro di biologia cominciava parlando dei virus, e spiegando che non sono parte della vita, ma sono più o meno esseri cristallini al confine tra la vita e la materia inanimata. Ancora oggi c’è chi sostiene che i virus non siano una forma di vita. Io non so che cosa possa voler dire, perché per me il fatto che un virus si replichi è quello che lo fa essere una forma di vita. Il fatto è che si tratta di una forma di vita delle più semplici, perché gran parte dei virus hanno un filamento singolo di RNA, come il Covid-19, quindi sono molto meno stabili di organismi a DNA con filamento doppio. Pur essendo così semplici non sono gli organismi più antichi. Possono avere fatto la loro comparsa solo una volta che la vita fosse già diffusa sul nostro pianeta, perché sono dei parassiti obbligati: se non hanno esseri viventi da parassitare non possono vivere. La grande importanza che hanno preso le forme più semplici di vita nell’evoluzione è un altro fatto su cui è interessantissimo riflettere”.
(SB): “La tua analisi e la tua divulgazione si concentrano sul rapporto tra natura e cultura, ossia tra quanto, nella vita biologica, è determinato dai geni, e quanto è influenzato o modificato dalle azioni umane, e come tutto si sovrappone e interagisce. Mi sembra che questa impostazione si presti molto bene alla lettura degli avvenimenti attuali. Ci vuoi spiegare se pensi che il virus stesso sia un prodotto umano, e se no, perché?”.
(FCS): “Facciamo una premessa generale. Natura e cultura sono intrecciate strettamente, e quello che fanno l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale, rispettivamente, è la stessa cosa, cioè cercano di renderci adeguati a sopravvivere nell’ambiente in cui viviamo. La natura lo fa alla sua maniera, come ha scoperto Darwin, promuovendo i tipi più adatti all’ambiente di vita, il che vale non solo per gli esseri umani ma per qualunque forma di vita. La cultura promuove quello che ci consente di vivere meglio. Poiché l’ambiente cambia di continuo devono esserci adattamenti sia biologici sia culturali. La cultura nasce dalla biologia ma è qualcosa di distinto.
In senso lato possiamo sostenere che l’emergere del Covid-19 sia dovuto a fattori antropici, culturali. Noi sappiamo che i coronavirus abitano nei pipistrelli, il che è stato l’oggetto di ricerca, in particolare, di una ricercatrice cinese, Shi Zhengli, che si è dedicata a questo per quindici anni e che chiamano Batwoman. Di questi virus ne sono state isolate e studiate dozzine, nei laboratori, specie a Wuhan, e sappiamo che in ciascun pipistrello possono esistere diversi tipi di coronavirus.
La ricercatrice che menzionavo, che è stata richiamata proprio a Wuhan all’inizio della pandemia, ha scritto di aver tirato un grande sospiro di sollievo quando ha constatato sperimentalmente che il virus in questione non era uno dei suoi.
L’origine del virus, in altre parole, è stata naturale, e poi lo si è andati a ‘stuzzicare’, inconsapevolmente, a causa di comportamenti culturalmente determinati: nel sud della Cina le persone interagiscono parecchio con animali selvatici come i pipistrelli e i pangolini, e tanti altri, tra cui i cani, che vengono portati nei mercati e mangiati come da noi si farebbe con le galline e le uova. Tutto questo, per di più, avviene in condizioni non solo di sradicamento degli animali dal loro ambiente originario, ma anche di sovraffollamento e di contiguità rispetto ad altri animali. Anche in occasione di precedenti epidemie abbiamo notato questa origine animale che è stata ‘catalizzata’ dagli umani con le loro pratiche. Ma attenzione, un conto è parlare di corresponsabilità umana, culturale, per quanto grave, e un conto è parlare di produzione del virus in laboratorio e di suo ‘spargimento’ intenzionale.
Proviamo ad analizzare le possibili ipotesi relative a una presunta ‘mano umana’ che potrebbe avere mosso, per così dire, il virus. Occorre distinguere diversi piani. Ci sono narrazioni relative all’origine del virus. Qualcuno sostiene che il virus sarebbe stato creato in laboratorio; qualcun altro potrebbe pensare che sia naturale, cioè dovuto a mutazioni spontanee, ma che sia stato isolato in laboratorio, e fosse quindi ben noto e disponibile prima della pandemia. Quanto alla diffusione, c’è la narrazione secondo cui il virus sarebbe ‘sfuggito’ e quella secondo cui sarebbe stato sparso intenzionalmente, o da questa o da quella potenza. Se si riflette bene, si vede che queste versioni possono combinarsi in modi differenti, e per farsi un’idea bisogna mettere un po’ di ordine, cercando di capire che cosa è plausibile e che cosa non lo è, e in base a quali dati e ragionamenti.
Concentriamoci per un attimo sull’idea specifica che il virus sia stato ‘assemblato’. Intanto, l’idea contraria, quella cioè per cui il virus è naturale, è ben supportata dal ragionamento che ho svolto prima, in riferimento alla grande commistione di diversi animali selvatici, tra cui i pipistrelli, che viene riferita come caratteristica del mercato di Wuhan. Questo dà una spiegazione plausibile sia dell’origine naturale del virus sia del suo passaggio agli esseri umani. Inoltre, il sequenziamento del genoma del Covid-19 è stato ormai fatto in più laboratori in giro per il mondo, in cui lavorano scienziati che io ritengo essere, per la stragrande maggioranza, persone molto serie e che non hanno rilevato segni di ‘assemblaggio’, che io sappia. Bisogna dire che con le tecniche avanzate di manipolazione genetica che si impiegano oggi, potrebbe essere difficile, ma non impossibile, distinguere con sicurezza un virus ‘costruito’ da uno che non lo è. Proprio oggi, però, ho sentito un’intervista resa a una TV francese da Luc Montagnier, virologo e premio Nobel per la medicina per la scoperta del virus HIV. Ha sostenuto che il virus è stato chiaramente costruito in laboratorio, perché contiene sequenze ripetute di RNA del virus HIV, che possono solo esservi state interpolate da mani molto esperte, e che favorirebbero lo scavalcamento di difese immunitarie. Ha detto chiaramente che questa è una verità che si cerca di soffocare, ma che lui è del tutto indipendente e dice quello che pensa. Montagnier ha aggiunto di non avere la minima idea di chi, quando e dove possa averlo fatto, ma che forse cercava di creare un vaccino per l’AIDS, usando la struttura del coronavirus come agente di penetrazione. Le affermazioni di Montagnier hanno prodotto un coro di animate smentite. Un premio Nobel è una voce autorevole, ma non è la bocca della verità. Per ora possiamo solo sospendere il giudizio, ma contiamo che si venga a capo della questione.
L’idea del virus semplicemente ‘sfuggito di mano’, che dal laboratorio raggiunge la strada, non ha molto senso, alla luce del fatto che i laboratori in cui si studiano questi virus hanno misure di sicurezza altissime, anche perché i primi a rimetterci la pelle in caso di incidente sono quelli che ci lavorano, e non risulta che sia successo. Inoltre, noi tendiamo a ragionare per analogia con cose note, e a farci influenzare dai film, ma nella realtà i virus non hanno ‘zampette’ per uscire dai contenitori. Quindi la ‘fuga’ del virus non ha senso. In prospettiva ‘dietrologica’ può solo esservi un piano.
Discutiamolo, allora, questo presunto piano. In primo luogo, per me rimane molto difficile accettare che ci sia qualcuno che possa avere degli standard morali così bassi da voler diffondere un virus che potrà fare milioni e milioni di morti. All’argomento etico-morale si potrebbe sempre obiettare non solo che la storia ci mostra infamie come i campi di concentramento e le bombe atomiche, ma anche che abbiamo visto le peggiori nefandezze commesse - da quanti governi? - in ogni angolo del mondo nel corso della nostra stessa vita. Ma quale sarebbe, esattamente, in questo caso, l’obiettivo dei presunti cospiratori, e quali la tattica e la strategia per conseguirlo? Ridurre la popolazione umana non può essere un obiettivo plausibile. Intanto, questo accadrebbe solo se un virus causasse centinaia di milioni o un miliardo di morti, il che non sembra che il virus abbia il potenziale di fare. In secondo luogo, chiunque avesse potuto concepire un piano del genere mi parrebbe ignorare i trend mondiali, che mostrano che la popolazione della Terra va a ridursi da sola, per transizione demografica, secondo tendenze molto chiare. Si prevede che smetterà di crescere tra il 2040 e il 2050. Per inciso, il giorno in cui diverremo in grado di contenere spontaneamente i nostri numeri sarà, secondo me, un nuovo inizio per l’evoluzione umana.
In altre parole, una cospirazione potrebbe essere sì malvagia, ma non folle: in questo caso sarebbe appunto folle, perché un virus, una volta ‘liberato’, non fa distinzioni tra le sue vittime. Si potrebbe ‘rilanciare’ dicendo: gli stessi cospiratori potrebbero salvarsi se avessero già il vaccino e lo usassero di nascosto per proteggere sé stessi e la loro cricca, e magari potrebbero anche progettare di tirarlo fuori al momento giusto per venderlo al resto della popolazione, diventando così i più ricchi del mondo. Ma se ragioniamo così ci allontaniamo dai dati e dalla logica per aggiungere all’ipotesi con cui siamo partiti nuovi ‘strati cospirazionisti’, nessuno dei quali è sostanziato da fatti o da nozioni solide. Nota anche che fare riferimento al concetto di vaccino in relazione a questo tipo di virus è discutibile, perché mutano molto rapidamente. Si sente parlare di un futuro vaccino come se fosse la salvezza dell’umanità, ma i vaccini rischiano di dover correre più veloci del virus per tenere dietro ai suoi cambiamenti.
Inoltre, se hai seguito un po’ le narrazioni cospirazioniste ti sarai accorto che ci sono state diverse ‘ondate’, ciascuna adattata ai fatti correnti, ma nel complesso non conciliabili tra loro. In un primo momento si è detto che erano stati i militari statunitensi in visita a Wuhan alla vigilia del capodanno cinese, per colpire la Cina, nuovo grande avversario degli USA; già che c’erano, hanno colpito l’Iran, l’arcinemico, e infine l’Italia, estremo della ‘via della seta’, punendo gli italiani per tutti gli accordi con la Cina. Un mese dopo, apparentemente domata l’epidemia in Cina, ecco che le teorie complottiste si rovesciano: ‘il virus lo hanno messo in giro i cinesi, a cui non importa niente della vita umana, e al prezzo di qualche migliaio di morti tra i loro faranno crollare le grandi economie mondiali, comprando le grandi aziende per quattro soldi e diventando i padroni del mondo!’. E adesso, con l’epidemia che sta tornando in Cina c’è bisogno di una terza teoria complottista…
A questo punto, l’unica teoria ‘dietrologica’ rimanente non sarebbe nemmeno più complottista in senso stretto, cioè riferita a un gruppo con un piano razionale, per quanto malvagio, un interesse economico preciso, e magari un vaccino nascosto, ma piuttosto una ‘teoria del piromane’, cioè relativa a qualcuno che, per pura follia, di sua iniziativa, senza interessi economici e di potere, ruba una provetta e la rompe per esempio in un mercato di animali... Ma qui si torna all’osservazione per cui i laboratori del tipo in questione hanno standard di sicurezza molto severi e uno scenario del genere non è supportato da prove di alcun tipo. Certo, se anche le narrazioni complottiste si rivelano essere fallaci o debolissime in questo caso specifico, rimane il fatto che la produzione e lo spargimento di un agente patogeno mortale ricadono tra le possibilità che la tecnologia apre all’umanità, e questa pandemia deve spingerci a ragionare in questo senso. L’umanità dovrebbe mettere in lista un’altra grande questione accanto alle altre con cui non ha saputo fare i conti, come l’arma nucleare e i genocidi”.
(SB): “La risposta della cultura ti sembra adeguata rispetto a questo avvenimento?”.
(FCS): “Mi sembra che la risposta culturale, per certi versi, sia più straordinaria di quanto non sia straordinario l’emergere del virus inteso come fenomeno naturale. Il governo cinese il mese scorso ha vietato in tutto il Paese un’usanza millenaria, la vendita di animali selvatici. In Europa e negli USA le istituzioni sanitarie sono state chiaramente colte in contropiede, benché da 15 anni fosse un dato ufficiale che una nuova pandemia era nell’ordine delle cose. Poi però hanno reagito con determinazione.
Ma forse, per uscire dall’epidemia, sarà decisivo un evento naturale, che è anch’esso nell’ordine delle cose. La ricercatrice cinese menzionata prima, la Batwoman, dice che nei pipistrelli coesistono diversi coronavirus anche all’interno di uno stesso individuo: questi si combattono a vicenda, senza che ci siano conseguenze per i pipistrelli stessi, perché si rimane sotto una certa soglia da cui partirebbe un processo infiammatorio (detto per inciso, da quanto sostengono alcuni medici sembra che negli esseri umani il virus colpisca più duramente chi ha già altre infiammazioni in atto). Il salto di specie, dai pipistrelli per arrivare a noi, è stato un evento raro sì, ma in fin dei conti non troppo. Per quel che ne so, tutte le influenze arrivano dai polli come dalla Cina, che è dove si è iniziato ad allevare i polli, migliaia di anni fa. I virus dell’influenza saltano da uccello a mammifero, neanche da mammifero a mammifero come in quest’altro caso. Quello attuale potrebbe essere solo un periodo di transizione prima che anche noi troviamo con il virus, al pari dei pipistrelli, un modus vivendi, cioè prima che si ricrei una stabilità biologica nella coesistenza tra virus parassita e essere umano parassitato. Questa stabilità può essere determinata da una mutazione del virus, che ne mitighi gli effetti sul corpo umano, o da uno stimolo alla produzione di anticorpi, come fa un vaccino, ma dipende anche dalla diffusione del virus fino a toccare il 60-80% della popolazione. Rallentare la diffusione di un virus per cui non c’è vaccino è la cosa giusta da fare, ma un suo cambiamento naturale nel senso di una sua attenuazione può avvenire solo se si lascia che la diffusione avvenga.
È vero che anche i virus scompaiono, ma in questo caso l’eliminazione completa non è plausibile o per lo meno potrà richiedere il suo tempo. Quello della spagnola era sì scomparso ma è stato ritrovato vent’anni fa nel cadavere congelato di un uomo morto in Alaska, sepolto nel permafrost, per cui ha potuto essere isolato, e in seguito anche ricostruito in laboratorio. Su un vaccino ho forti dubbi, perché stiamo parlando di virus che mutano rapidamente, come ho sottolineato prima parlando delle teorie cospirazioniste. L’AIDS è in giro da quarant’anni: forse che esiste un vaccino? Nell’affidarsi a un futuro vaccino, più che la voce della classe medica mi pare di sentire quella del grande business e della gente spaventata. Un vaccino può poi avere più controindicazioni. È più probabile che si trovi una terapia, magari anche semplice ed efficace, e in questa direzione sembrano andare varie sperimentazioni in campo medico, per esempio in relazione all’uso dell’ozono o della clorochina. Sono temi che non ho competenza per discutere, esprimo solo il parere che si possano trovare rimedi anche semplici a questa infezione. Nell’applicazione di una terapia, infine, potrebbe giocare un ruolo anche la questione di dove e come viene applicata: emotivamente, per un paziente, specie se anziano, la situazione è molto più pesante se viene curato in isolamento, in ospedale, da sconosciuti in tuta protettiva, o se invece riceve un’assistenza domestica, che potrebbe rassicurarlo, con effetti benefici. Con questo ovviamente non voglio sostenere che la malattia sia psicosomatica o che la cura passi solo attraverso le emozioni, ma sono fattori di cui tenere conto”.
(SB): “Più specificamente, come giudichi le reazioni dei singoli governi?”.
(FCS): “Facevo l’esempio del divieto cinese di vendere animali selvatici solo per metterlo in contrasto con la prevedibilità e la naturalità dell’emergenza dal punto di vista della natura, una volta che le si impongano certe pratiche culturali tutte umane, come allevamenti di massa sovraffollati. Non dimentichiamoci che praticamente tutte le grandi malattie infettive che hanno colpito l’umanità negli scorsi millenni sono derivate dalla contiguità con animali che abbiamo allevato, oppure da pratiche culturali, come la coltivazione di granaglie, che ci hanno messo a stretto contatto con animali che di solito non alleviamo, come i topi. Ma alla luce della prevedibilità dell’evento pandemico, la reazione complessiva dei governi e delle istituzioni mi è sembrata essere caratterizzata da impreparazione, questo sia in Cina sia in Occidente. Il primo caso mi pare sia stato segnalato alla fine di dicembre, e il virus circolava in realtà fin dagli ultimi mesi del 2019. L’OMS aveva dichiarato già da quindici anni che una pandemia era nell’ordine delle cose. I sistemi sanitari erano avvisati, e non avevano un piano di reazione, ma in realtà non erano nemmeno equipaggiati. In Italia, negli anni Ottanta c’erano circa 420.000 persone impiegate nella sanità; dopo quarant’anni sono circa 227.000. In Italia ci sono 60 milioni di persone e 5.000 respiratori. La Germania è molto meno impreparata, con 80 milioni di persone e 25.000 respiratori. Sono dati ascoltati alla radio, non posso metterci la mano sul fuoco, ma è chiaro che si scontano decisioni politiche sbagliate, che hanno determinato carenza di personale e arretratezza tecnologica. A Taiwan si sono prese misure fin dal 31 dicembre, chiudendo le frontiere e operando controlli, e là non c’è stato l’impatto della prima ondata, per lo meno. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno minimizzato all’inizio e sono corsi ai ripari quando la curva era già partita. In Italia, al netto dell’impreparazione che dicevo, e anche considerando che siamo stati il primo Paese colpito in Europa, il che ha costituito uno svantaggio, si sono prese buone misure per rallentare l’epidemia, che però non impediranno gravissime conseguenze economiche. Tutto sommato, tenuto conto di differenze anche molto importanti tra i vari Paesi, dovute a diversi fattori, l’umanità si è lasciata cogliere di sorpresa.
Tornando al concetto di ‘stabilità’ nella coesistenza tra esseri umani e virus, di cui parlavo prima, il suo raggiungimento dipende dalla capacità di contenere il contagio, che però deve seguire il suo corso, pur rallentato. Qui si incontrano le esigenze della biologia e quelle della cultura, quest’ultima intesa come economia e non solo (visto che l’isolamento è pesante anche emotivamente e psicologicamente): da un lato il virus deve diffondersi, dall’altro la società non può fermarsi. Per questo la metafora, apparentemente molto amata dai media italiani, della ‘guerra’ al coronavirus, è sbagliata. Non vincerà lui e non vinceremo noi. Tanto dal punto di vista naturale quanto da quello culturale occorre mirare a una convivenza”.
(SB): “Finora abbiamo parlato di reazione della cultura nel senso di reazione immediata, politica e medico-tecnologica, all’emergenza. Te la senti di fare congetture sulla cultura in senso più generale e in prospettiva temporale più lunga, su come può trarre stimolo e spunto dalla pandemia per cambiare, e in che direzione?”.
(FCS): “Un’osservazione prima di tutto; su una cosa è concorde tutto il mondo della medicina e della scienza: la migliore difesa contro i virus è un robusto sistema immunitario. La medicina di domani ha da puntare sulla prevenzione prima che sulla cura. Non è difficile: si tratta di fornire informazioni igieniche e nutrizionali fin dalla scuola materna, promuovendo uno stile sano e intelligente di vita. Sarebbe un vantaggio immenso in termini di salute collettiva e di benessere personale, nonché un risparmio colossale di denaro. Si potrebbero destinare risorse a malattie rare e ad interventi medici di necessità più costosi e specializzati, anziché a patologie che uno può evitare o curarsi da solo.
Dobbiamo parlare con rispetto per chi è morto, e per chi ha sofferto e soffre di questa malattia, ma ipotizzando che la pandemia non abbia come risultato una strage spaventosa a livello planetario, non possiamo ignorare che ci sono qui lezioni da imparare, una buona occasione di cambiamento. Pensa alle ‘polveri sottili’ in Lombardia, le nanoparticelle che hanno saturato l’aria di Milano e altre città tutto l’inverno, che ora si ipotizzano essere un vettore del virus, e la cui diffusione è stata drasticamente abbattuta dalla paralisi di attività e spostamenti. Una ricerca condotta da più università italiane ha ora dimostrato sperimentalmente che il virus ‘si aggancia’ alle nanoparticelle. Tutta l’Italia del nord è libera dall’inquinamento atmosferico – è straordinario, riuscire a respirare di nuovo! – e di questo possiamo ringraziare il virus, perché nessun governo nazionale, regionale o comunale ci sarebbe mai riuscito. Non ci avrebbero nemmeno provato. Non riesco ad accettare che quando finirà il lockdown si tornerà alle condizioni di prima. Nella riduzione dell’inquinamento c’è una lezione, e non solo strettamente relativa alla prevenzione di virus come questo.
Anche a livello di rapporti umani noto che la necessità del distanziamento è stata controbilanciata da una certa solidarietà, nella comune sventura. A distanza, sì, ma ci si guarda in faccia. Tra l’altro, è un vero errore parlare di ‘distanziamento sociale’. Già siamo solitari, isolati e diffidenti l’uno dell’altro, almeno nelle comunità urbane. Bisognerebbe parlare di ‘distanziamento sanitario’, perché è di questo che si tratta. In realtà, siamo sì isolati, ma grazie alla rete informatica possono esserci scambi come il nostro, e si sono moltiplicati. Le epidemie di necessità hanno sempre allontanato le persone. Per la prima volta nella storia, ora questa ci aiuta ad avvicinarci, grazie alla rete informatica.
Chissà che queste ‘buone cose’ non rimangano, agendo sulla consapevolezza delle persone, aiutando a correggere il rapporto malato che abbiamo con l’ambiente, con le specie viventi e con gli altri esseri umani, visto che per molti versi l’umanità sembra un po’ ‘alla frutta’. È una speranza e non una previsione. Le previsioni le lascio ai veggenti. Per inciso, in questi giorni ho letto che la pandemia era stata prevista per il 2020 da una veggente statunitense, tale Sylvia Browne, con notevole precisione di dettaglio. Peccato però che ne avesse profetizzata una anche per il 2010...
L’epidemia sta costringendo ciascuno a guardare in faccia sé stesso. Forse è questa la novità più importante. Difficile pensare che dopo tutto riprenderà come prima. È una grande occasione di cambiamento”.
(SB): “Spostiamoci verso un altro tema su cui si è molto concentrata la tua riflessione critica. Le religioni possono essere di impedimento o di aiuto in questo frangente? Mi sembra di capire che per te le religioni sono un fattore culturale tutto sommato anti-evolutivo, anche se poi resta da capire, se è così, perché sono in circolazione da tanto tempo… Non sarà che presentano, dal punto di vista della vita e della sopravvivenza, sia vantaggi sia svantaggi? Tu parli di inganno delle religioni, ma certi inganni non possono essere proficui e persino necessari?”.
(FCS): “Le religioni indubbiamente hanno un valore evolutivo. Con la promessa di una ricompensa ultraterrena, o di una rinascita in una condizione migliore della presente, instillano una forte speranza nel futuro, e quindi sono state utili alla sopravvivenza di una grandissima parte dell’umanità, che è sempre vissuta e vive in condizioni difficili, ancora una volta a causa di fattori sia naturali sia socio-culturali. La religione, però, con tutto il suo armamentario di credenze, soffoca quella stessa vita che per altri versi sostiene, perché non promuove le capacità dell’essere umano, privandolo della grande libertà di scegliere. Certo, ‘la fede muove le montagne’, ma è una fede che non è necessariamente religiosa: può anche essere la fede in sé stesso o in altri, per esempio quella che un giovane musicista ha nel valore proprio e della propria musica, la fede dello scienziato il quale, per dura che sia la ricerca, crede che potrà spuntarla e trarne dei risultati, la fede che ha ciascuno di noi quando si impegna in qualcosa con tutto il suo entusiasmo… o la fiducia del bambino nei suoi genitori. Quindi qui stiamo parlando di un elemento positivo che può essere incorporato nella religione ma non è esclusivo della religione o non la definisce in quanto tale.
Inoltre, tutti abbiamo bisogno di inganni, di ‘raccontarcela’ in qualche maniera, per esempio nobilitando il passato (pensa all’importanza delle genealogie per i nobili, o di un Cesare che era convinto di discendere da Venere), oppure dicendo a noi stessi che il futuro andrà meglio. Le religioni offrono narrazioni ‘preconfezionate’. Ma così facendo impediscono anche di pensare.
Le religioni offrono anche un ‘portale verso l’invisibile’, ossia un’apertura verso tutto ciò che sfugge ai nostri sensi e alla nostra conoscenza diretta. Pensa all’importanza che vi hanno i miracoli. Questo è importante e sarebbe un vantaggio, perché abbiamo una perenne necessità di confrontarci con l’ignoto: in effetti, diverse religioni hanno prodotto grandi saggi e santi. Però questo vantaggio si annulla, perché la religione al tempo stesso deresponsabilizza: pensa a chi è spinto a uccidere per motivazioni religiose o comunque trova nella religione una giustificazione (o il perdono!) per agire in modi umanamente inaccettabili.
Nella situazione attuale valgono osservazioni analoghe. Mi sembra che i maggiori leader religiosi, a partire dal Papa, si limitino a predicare che la presente sofferenza è un’occasione per praticare certe virtù. Non suggeriscono un’interpretazione della malattia come punizione del peccato o, peggio, che il rimedio può venire per esempio dalle processioni e dalla preghiera. Per di più, per i cristiani, l’attuale ‘sofferenza ingiustificata’ è giunta in linea con la narrazione e l’atmosfera quaresimale. Quindi, di fatto, a quel livello, si registra un arretramento della religione rispetto alla scienza. La Chiesa cattolica forse ha imparato dalla sua stessa storia a tacere su certe questioni. Ricordo che già Manzoni, che scriveva da cattolico ma influenzato dall’Illuminismo, narra di come le processioni ‘salvifiche’ fossero un’occasione per la peste di propagarsi ulteriormente. Se invece ci fossero leader e fedeli che diffondono e praticano posizioni diverse, per esempio sostenendo che il virus va sopportato lasciando che agisca, e non affrontato terapeuticamente o con altre misure, oppure predicando che può sì essere curato, ma con metodi non scientifici, oppure ancora che basta la sola protezione divina, allora in quel caso sarebbe evidente lo svantaggio di una posizione religiosa rispetto alla sopravvivenza. Che poi la religiosità e la spiritualità a livello individuale possano apportare un certo conforto psicologico entro i termini che dicevo prima, non lo escludo. Anzi, sappiamo che per molti è senz’altro così. In fondo, però, non è una forma di grande deresponsabilizzazione, pensare che una divinità benevola e felice possa risolvere ciò che supera la nostra portata, e mettere tutto a posto?
Ma qui penso che si apra tutto un altro discorso, sul rapporto tra il nostro atteggiamento interiore e il mondo intorno a noi”.
Note
[1] La conversazione si è svolta il 12 aprile. La presente trascrizione, con adattamenti, è stata approvata da Francesco Cavalli-Sforza, a cui va la riconoscenza mia e della Redazione.