Quale salute?
Stefano Scrima Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
La vita sotto qualunque forma come anche sia, a prezzo di qualunque dolore «si vive volentieri».
(Carlo Michelstaedter: Il dialogo della salute, 1910).
Quando in gioco c’è l’uomo, il suo stesso senso su questa terra, finalmente la filosofia ha l’opportunità di farsi sentire risalendo dal sottosuolo con la bava alla bocca. Perché se è la salute ciò che i governanti vogliono preservare, ciò che pare abbia la priorità assoluta su tutto il resto, è bene capire quale sia la loro idea di salute, ovvero quale sia l’idea di salute nel pensiero comune.
Ora, nello stato d’eccezione che viviamo in questo memorabile inizio di 2020 ci viene chiesto di mettere da parte ogni cosa in nome della salute individuale e quindi collettiva, frenando il contagio di un virus che sta facendo ammalare (e in alcuni casi morire) sempre più persone, e questo anche e soprattutto per scongiurare il collasso del sistema sanitario impreparato. Sembra tutto così ovvio. Cosa c’è di più importante della salute? È inimmaginabile qualsiasi misura alternativa alla quarantena di massa e alla successiva ripresa alla vita con ferree limitazioni e misure di sicurezza, tant’è che la filosofia, con le sue teorie da divano, è pregata di vergognarsi. D’altronde è lo stesso Schopenhauer nei suoi Aforismi sulla saggezza del vivere a dire che «nove decimi della nostra felicità si basano esclusivamente sulla salute.
Con questa ogni cosa diventa fonte di godimento». Primum vivere deinde philosophari: compromessa la fisica, la metafisica è ridicola. Per cui, la libertà di muoversi, rischiando di favorire la malattia, non vale la salute, quella biologica.
L’altra salute, quella mentale, che poi si fa necessariamente anche fisica, non ha mai avuto la dignità della sorella. Perché è subdola e soprattutto vittima del pregiudizio religioso della colpa: essere infettati da un virus, al netto della terribile possibilità di essere additati come untori, è una fatalità (tranne che per gli integralisti religiosi, questo è ovvio), diversamente dal disagio psicologico, che viene da “dentro”. Non si vede arrivare, i suoi sintomi mutano plasmando i caratteri. Non si sa da dove provenga – più esattamente non vogliamo vederlo – e attribuiamo il disturbo alla stessa responsabilità del singolo, privandolo del riconoscimento della malattia, che aprirebbe le porte a una cura.
E qui appare il mondo nella sua luce più vivida. Un mondo di malati mentali, noi, piegati forzatamente al sistema neoliberista consolidatosi negli ultimi secoli. Ipercompetitivi, superefficienti, spietati. E quindi stressati, sfruttati o autosfruttati, frustrati, stanchi, ansiosi, depressi. E non è tutto perché il sistema neoliberista, che lo si voglia accettare o no, uccide, causando guerre, carestie, inquinamento, diseguaglianza e, non ultime, le epidemie. Il nostro precario stato mentale, già profondamente compromesso, potrà anche reggere il ritmo disumano di questo sistema, ma non potrà far nulla contro l’annientamento definitivo, quello biologico appunto. O meglio, una cosa può farla: chiedersi in nome di quale idea di vita serva la nostra salute. Una salute biologica preservata a danno di quella mentale, fra l’altro ora messa a dura prova dalla mancanza di libertà e soprattutto dal ricatto economico fattosi ancora più stringente. Qui la filosofia si toglie il bavaglio e grida: perché invece di fermare tutto per poi ritornare a fatica al ritmo disumano di prima, più ammalati che mai, non cambiamo ritmo? Già, perché?
Konrad Lorenz nel suo aureo libretto Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973) scrive, ricordando un pensiero del maestro Oskar Heinroth, che «dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica». Sì perché il fagiano argo, costretto ad una ferrea competizione tra maschi per attirare la femmina a suon di allungamenti di penne maestre, che lo rende quasi incapace di spiccare il volo, è l’esempio più lampante di una selezione naturale interna alla specie che paradossalmente va a danno della stessa. Fortuna per il fagiano che esiste anche la selezione operata in senso opposto dai predatori terrestri, altrimenti si sarebbe già estinto. Ma alla stupidità intraspecifica della specie umana quale effetto regolatore si opporrebbe? Impossibile non pensare alla pandemia in corso, ipotesi affascinante con cui la natura stessa cercherebbe di imporre un argine a una serie di comportamenti dannosi attuati dall’essere umano contro se stesso e il mondo.
Un avvertimento, come scrive Cioran: «“Che cosa aspetti ad arrenderti?” – Ogni malattia ci invia un’intimidazione camuffata da interrogativo. Fingiamo di non sentire, pur pensando che lo scherzo è durato già troppo, e che la prossima volta bisognerà avere finalmente il coraggio di capitolare» (L’inconveniente di essere nati, 1973). Capitolare o cambiare, la terza via – diabolica – del perseverare sulla stessa strada ricondurrà inevitabilmente, prima o poi, a questa scelta.
Ecco perché in gioco non c’è solo la nostra salute tout court, ma anche la salute del sistema in cui viviamo, che dipende da noi quanto noi dipendiamo da essa. La filosofia non può non esser d’accordo sul preservare la salute biologica dei cittadini, presupposto cardine per una vita buona, degna, ma deve ravvisare l’incapacità della politica, nel senso originario del termine, di mettersi in discussione. Il rischio, che probabilmente sarà presto realtà, è quello di riprendere in mano l’esistenza esattamente da dove l’avevamo lasciata, solo più ammalati di prima e incapaci di cogliere i sintomi della malattia globale.