Le responsabilità degli uomini: cosa leggere secondo me
Maria Turchetto Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Ritengo che Rousseau, che ho citato per esteso nell’articolo dedicato al terremoto di Lisbona, possa darci anche nell’emergenza attuale un insegnamento laico e razionalista: lasciamo stare Dio, smettiamo di attribuirgli le nostre disgrazie in termini di castighi, di prove a cui vuole sottoporci per migliorarci, di piani insondabili comunque rivolti al bene. Lasciamo stare Dio – sono comunque ragionamenti oziosi – e interroghiamoci più costruttivamente sulle responsabilità degli uomini.
Urbanizzazione
Come abbiamo visto, Rousseau critica soprattutto l’urbanizzazione: problema senza dubbio connesso anche alle epidemie. In un articolo pubblicato da il Manifesto lo scorso 5 aprile, Ángel Luis Lara sostiene appunto che “Le epidemie sono un prodotto dell’urbanizzazione. Quando circa cinquemila anni fa gli esseri umani cominciarono a raggrupparsi in città con una certa densità di popolazione, le infezioni poterono colpire simultaneamente grandi quantità di persone e i loro effetti mortali si moltiplicarono. Il pericolo di pandemie come quella attuale si generalizzò quando il processo di urbanizzazione è diventato globale”. E aggiunge che il concetto di urbanizzazione va esteso anche agli animali: “In un periodo di cinquanta anni l’allevamento industriale ha ‘urbanizzato’ una popolazione animale che prima si distribuiva in piccole e medie fattorie familiari. Le condizioni di affollamento di questa popolazione in macro-fattorie convertono ciascun animale in una sorta di potenziale laboratorio di mutazioni virali suscettibili di provocare nuove malattie e epidemie. Questa situazione è tuttavia più inquietante se consideriamo che la popolazione globale di animali allevati è quasi tre volte maggiore di quella di esseri umani”.
Allevamento intensivo
“Negli ultimi decenni – prosegue Lara – alcune delle infezioni virali con maggiore impatto si sono prodotte grazie a infezioni che, oltrepassando la barriera delle specie, hanno avuto origine nello sfruttamento intensivo dell’allevamento. Miliardi di polli, per esempio, sono allevati in queste macro-imprese che funzionano come spazio di contenimento suscettibile di generare una tempesta perfetta di carattere virale”
(http://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/).
Molti autori concordano nell’attribuire la responsabilità dei grandi contagi degli ultimi decenni all’allevamento industriale. È il caso di citare, tra i tanti, il biologo Robert G. Wallace, autore di un libro molto importante, Big Farms make Big Flu: Dispatches on Influenza, Agribusiness and the Nature of Science, Monthly Review Press, 2016, che ricostruisce la relazione tra agroindustria globale e diffusione delle epidemie. Recentemente Wallace ha rilasciato una lunga intervista alla rivista tedesca Marx21, che è stata tradotta in italiano (ed è reperibile qui:
https://www.infoaut.org/approfondimenti/da-dove-e-arrivato-il-coronavirus-e-dove-ci-portera).
Wallace afferma che “chiunque voglia comprendere come mai i virus stanno diventando più pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e in particolare la produzione del bestiame. Al momento, pochi governi e pochi scienziati sono pronti a farlo. Abbastanza il contrario di ciò che andrebbe fatto. Quando i nuovi focolai esplodono, governi, media e addirittura la maggior parte del personale medico sono talmente focalizzati sulle nuove emergenze che non si curano delle cause strutturali che stanno portando numerosi agenti patogeni marginali a diventare, uno dopo l’altro, delle vere e proprie ‘celebrità’ mondiali”. Come si sa, gli allevamenti intensivi sono responsabili anche dell’aumentata resistenza agli antibiotici di molti microrganismi.
Agricoltura industriale
E non soltanto l’allevamento, anche l’agricoltura industriale è indicata da Wallace come responsabile della diffusione di nuove malattie. Sotto accusa è la corsa ad “accaparrarsi terre nelle ultime foreste vergini e nelle piccole proprietà terriere in tutto il mondo. Questi investimenti portano con sé la deforestazione e lo sviluppo, che a loro volta portano all’emergenza delle malattie. La diversità e complessità funzionale che queste grosse porzioni di territorio rappresentano stanno venendo messe alla prova in maniera tale che agenti patogeni che prima erano importati adesso si impiantano nel bestiame e nelle comunità umane locali. Ebola, il virus Zika, i coronavirus, la febbre gialla, una varietà di influenze aviarie e l’influenza suina africana sono alcuni tra i molti agenti patogeni che stanno uscendo dai più remoti hinterland per avanzare nelle zone peri-urbane, nelle capitali regionali e infine farsi strada nel network dei flussi di trasporto globali. Dai pipistrelli erbivori del Congo arrivano ad uccidere i bagnanti di Miami in poche settimane. L’agricoltura a guida capitalista che rimpiazza ecosistemi naturali offre le possibilità perfette agli agenti patogeni per evolvere e sviluppare i fenotipi più virulenti e contagiosi. Non si potrebbe immaginare un sistema migliore per sviluppare malattie mortali”.
Su questo problema del resto punta il dito anche Telmo Pievani in un articolo pubblicato da le Scienze, in cui racconta con ironia il rapporto tra virus e umani … dal punto di vista dei virus. E così conclude: “con gran sollievo dei virus, gli umani continuarono a devastare gli ecosistemi, favorendo il contatto con scimmie, roditori, pipistrelli ed altri ospiti serbatoio che nascondevano i virus in sé. Infischiandosene di leggi e biodiversità, continuarono a cacciare e commerciare animali selvatici. Poi li ammassarono in luridi mercati, dove le bestie in gabbia convivevano con le carcasse, i liquidi corporei si mescolavano, sangue dappertutto e umani a torso nudo. I virus, entusiasti, fecero un bel po’ di spillover, cioè salti di specie, diventando spesso più cattivi e contagiosi. Era già successo con la rabbia, l’aids, Ebola, Marburg, febbre gialla, influenze aviaria e suina, SARS e molti altri. Certi umani, detti scienziati, lo avevano previsto, era scritto nei libri di testo, si chiama zoonosi. Ma non servì a nulla. Successe ancora. Succederà. Perché c’è il solito miope tran tran da mandare avanti. I virus si fecero una gran risata quando seppero che quel borioso mammifero bipede aveva avuto la presunzione di chiamarsi Homo sapiens” (Telmo Pievani, E si chiamano sapiens, in Le scienze, n. 620, aprile 2020).
Uno scacco al progresso?
Sì, gli uomini sono davvero “mammiferi boriosi”, poco inclini all’autocritica e incondizionatamente certi delle “magnifiche sorti e progressive” della loro civiltà. Negli anni ’70 del secolo scorso Abdel Omran formulò la teoria della “transizione epidemiologica” (A.R. Omran, The epidemiologic transition: a theory of epidemiology of population change, in Milbank Memorial Fund Quarterly, n. 4, 1971) e si fece strada la convinzione che le malattie infettive fossero destinate, se non a sparire, quanto meno a non rappresentare più un fattore di mortalità significativo, lasciando sempre più spazio a malattie non trasmissibili come quelle cardiache o tumorali. Questo grazie ai progressi della medicina (la fiducia negli antibiotici era ancora intatta) e delle modalità di assistenza sanitaria, e più in generale grazie alla diffusione del benessere, con il conseguente miglioramento dell’igiene, delle condizioni abitative e della nutrizione.
Purtroppo, come scrive l’epidemiologo Alessandro Vespignani, “gli ultimi anni sono stati una doccia fredda. Eventi come la pandemia influenzale del 2009, responsabile di oltre 280.000 morti nel mondo, l’epidemia di Ebola in Africa occidentale nel 2014 con oltre 11.000 morti e l’epidemia di Zika responsabile di milioni di infezioni in America Latina nel 2016 ci hanno dimostrato quanto la nostra società sia fragile rispetto alla minaccia di virus e batteri. Viviamo in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, in cui le epidemie si diffondono usando i grandi hub aeroportuali del mondo. Una nuova epidemia in una remota zona dell’Africa diventa una minaccia globale dall’impatto potenzialmente devastante” (Alessandro Vespignani, Prevedere la nuova pandemia, in Quaderno le Scienze, Virus, marzo 2020 – in considerazione della situazione attuale, le Scienze mette gratuitamente a disposizione questo nuovo titolo della sua collana digitale, scaricabile qui:
http://download.kataweb.it/lescienze/media/pdf/Virus%20finale.pdf).
Secondo i dati più recenti dell’OMS, a livello globale quasi un decesso su cinque è dovuto a una malattia infettiva; uno su due se si considera solo la metà del mondo più povera. Su quest’ultimo dato credo occorra una riflessione. Il clamore mediatico per il Covid-19 è certamente comprensibile, ma risulta in qualche modo ipocrita – o “eticamente scorretto”, se mi passate l’espressione – se paragonato al silenzio che ha circondato le epidemie che negli ultimi anni hanno devastato il Terzo Mondo: le nuove, come il virus Zika; le vecchie, come l’Ebola; le vecchissime di ritorno, come la malaria e la tubercolosi.
Politiche neoliberiste
Certo, la globalizzazione ha fatto la sua parte. Ma va considerato anche il brusco arresto che il “progresso”, quello che alimentava le rosee previsioni degli anni ’70, ha subito: a causa delle crisi economiche e a causa – bisogna dirlo – delle politiche neoliberiste. La parola d’ordine “meno Stato, più mercato” ha fatto le sue vittime; più ancora ne hanno fatte le privatizzazioni e i tagli alla sanità imposti a tanti paesi negli ultimi anni. Nei paesi “sviluppati”: gli USA, dove un tampone per il Covid-19 costa 3270 dollari (non è coperto dall’Obamacare, la modestissima riforma sanitaria varata nel 2010); ma qualcosa va detto anche a proposito della Lombardia, regione in testa a tutte per la privatizzazione della sanità. E ancor più nei paesi “sottosviluppati”, dove i Piani di Aggiustamento Strutturale del FMI si sono tradotti in interruzione di campagne di vaccinazioni e in aggravamento delle condizioni sanitarie già disastrose. Ci sono moltissime pubblicazioni che documentano tutto ciò, ma qui farò riferimento solo a un libro particolarmente adatto a un pubblico ateo, Piero Calzona, Homo stupidens. Una disamina storico-antropologica sull’uomo e sulle religioni, Meligrana Giuseppe Editore, 2014.
Religioni
E le religioni, sì, le religioni … Su questo argomento vi lascio agli articoli di Francesco D’Alpa, di Stefano Bigliardi e all’intervista a Taner Edis nella sezione che abbiamo dedicato a questo argomento.
Ma vorrei ricordarvi un libro vecchissimo, che a me a suo tempo era piaciuto molto: Giovanni Berlinguer, Le mie pulci, Ed. Studio tesi 1995.
Lo ricordo particolarmente volentieri perché su questo libro scrissi il mio primo articoletto per L’Ateo, nel lontano 2000. In quell’articolo me la prendevo soprattutto con lo sterminio di gatti dovuto alla Chiesa – e, come scriveva Berlinguer, non solo di gatti ma di “uomini accusati di aver ospitato o curato gatti e donne accusate di stregoneria in associazione con i diabolici felini”. Berlinguer sottolineava quello che con felice espressione indicava come “genio epidemico” della Chiesa: la strage dei gatti rese inermi le popolazioni “quando si intensificarono i traffici con l’Oriente e le navi scaricavano nei porti europei, insieme alle merci pregiate, stuoli di topi neri famelici e appestati […]: erano stati infatti sterminati i soli alleati che avrebbero potuto difendere gli uomini”. E il “genio epidemico” della Chiesa lavorò ulteriormente per la causa della peste: le processioni e i pellegrinaggi organizzate per impetrare il perdono divino di fronte all’epidemia furono occasioni di contagio, e “quando il papa Clemente VI invitò l’intera cristianità a portarsi a Roma, nel 1348, promettendo l’assoluzione per chi vi giungeva ma anche per chi moriva in cammino, moltissimi risposero all’appello, ma pochissimi arrivarono vivi al traguardo”.
Il “genio epidemico” della Chiesa si è forse un tantino attenuato negli ultimi tempi. Più che ultimi, ultimissimi: di fronte all’AIDS la cocciuta condanna ecclesiastica del preservativo ha avuto la stessa valenza e pericolosità dello sterminio dei gatti. E solo un tantino: sì, il papa da solo a pregare in Piazza San Pietro, le messe in streaming, ma le chiese aperte – senza le funzioni, ma qualche volta le funzioni si fanno, senza la presenza dei fedeli, o invece alla loro presenza…
Non si sa. Due pesi e due misure, comunque: regole ferree per noi comuni mortali, deregulation per Santa Romana Chiesa.