Quello sguardo geopolitico che non ti aspetti. Conversazione con l’Ambasciatore Alberto Bradanini

Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Alberto Bradanini è entrato nella carriera diplomatica nel 1975 dopo essersi laureato in Scienze Politiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha ricoperto incarichi alla Farnesina e all’estero, tra cui Belgio, Venezuela e Norvegia. È stato, tra il 2004 e il 2007, Direttore dell’UNICRI, Istituto interregionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia. Ha trascorso in Cina circa un decennio, distribuito in diversi periodi: dal 1991 al 1996 quale Consigliere Commerciale presso la nostra Ambasciata a Pechino, dal 1996 al 1998 come Console Generale d’Italia ad Hong Kong, e infine Ambasciatore d’Italia dal 2013 al 2015. È stato anche Ambasciatore d’Italia in Iran tra il 2008 e il 2012. Attualmente presiede il Centro Studi sulla Cina Contemporanea (Reggio Emilia). Nel 2018 ha pubblicato Oltre la Grande Muraglia. Uno sguardo sulla Cina che non ti aspetti (Egea-Università Bocconi Editore) [1].

Stefano Bigliardi (SB): “Eccellenza, in questi giorni ascoltiamo analisi politologiche di ogni tipo e a raggio più o meno ampio. Lei è noto e apprezzato come figura super partes, svincolata dalle dinamiche della politica italiana, ha una prospettiva internazionale di altissimo livello basata su una lunga esperienza, e anche un punto di vista non religioso. Per di più, ha rappresentato l’Italia in Cina e in Iran, Paesi profondamente diversi ma tra i più colpiti dal virus, insieme al nostro. Ci aiuta a capire la risposta istituzionale che quei Paesi hanno dato al Covid-19, alla luce degli elementi ideologici che li hanno dettati o che sono stati usati per giustificarli, ma anche di quelli religiosi (se ce ne sono)? E come hanno reagito le popolazioni?”.

Alberto Bradanini (AB): “Per quanto riguarda la Cina, occorre considerare che in Cina non è diffusa la religione come la s’intende in Occidente. Se per religione intendiamo una fede in un Dio che ha creato il mondo e che si occupa degli uomini, ecco allora essa in Cina non è diffusa. Certo vi sono alcuni milioni di cristiani (una religione venuta da fuori, dunque, con circa 25-40 milioni di protestanti e 10-12 milioni di cattolici, metà dei quali si riconosce nella cosiddetta Chiesa ufficiale). Poi è diffuso il buddhismo, che sotto il profilo del senso di colpa è persino riconducibile alla famiglia delle religioni occidentali. Tra le scuole di pensiero che alcuni assimilano erroneamente alla nozione di religione, vi sono  il confucianesimo e il taoismo, che religioni in senso occidentale beninteso non sono. La stragrande maggioranza dei cinesi, pertanto, non è religiosa, come intendiamo noi. In Cina è anche diffuso l’Islam, quello antagonista uiguro nella regione nordoccidentale del Xinjiang (complessivamente 11 milioni circa) e quello Hui, che nei secoli si sono sempre schierati dalla parte dei cinesi Han (diffusi specialmente nella Provincia del Ningxia, ma non solo). In totale, su una popolazione complessiva cinese di 1,356 miliardi parliamo di un 3-4%, non di più [2].

Ciò detto, reputo che le autorità cinesi abbiano fatto fronte alla diffusione del virus in modo differenziato. Nelle fasi iniziali del contagio molto male. Probabilmente le prime morti si erano verificate già a novembre 2019, anche se forse i cinesi non se ne sono accorti (e comunque non lo han fatto conoscere al resto del mondo). A dicembre il medico di Wuhan che lo aveva intuito (Li Wenliang, poi deceduto) non è stato ascoltato. Tale ritardo si spiega con ragioni burocratiche, perché la decisione di decretare lo stato di epidemia spetta al governo centrale, e la successione dei rimpalli tra la provincia dell’Hubei e Pechino ha fatto perdere tempo prezioso. La seconda ragione è stato il timore che la dichiarazione dello stato epidemico avrebbe avuto serie conseguenze sull’economia a livello nazionale (e non solo). Nella prima fase dunque il sistema cinese, gerarchizzato e con forte controllo dall’alto, è stato di ostacolo a una gestione corretta della diffusione del Covid-19. Se avesse saputo la verità un paio di mesi prima, il resto del mondo avrebbe potuto difendersi assai meglio, e gli effetti del virus sarebbero stati meno gravi.

Dopo la prima fase, tuttavia, la reazione cinese è stata virtuosa, e quelle medesime caratteristiche che all’inizio erano state d’impedimento hanno consentito di contenere il contagio in modo efficiente, sia all’interno dell’Hubei che nel resto del territorio cinese, e persino il dialogo con gli altri Paesi è stato efficace. Oggi la Cina aiuta molte nazioni del mondo, tra cui la stessa Italia e persino gli Stati Uniti, dove ha inviato un aereo pieno di dispositivi ospedalieri, e Trump ha ringraziato. La Cina lo fa per diverse ragioni insieme, un po’ per senso di colpa, un po’ cercando di cogliere l’occasione per ridurre quel sentimento anti cinese che si va diffondendo nel mondo per aver originato il virus, e infine per esportare il suo soft power e l’immagine di un Paese che si fa carico di un fondamentale bene pubblico internazionale come la salute, immagine quindi diversa da quella aggressiva e militarizzata degli Stati Uniti.

Si può aggiungere che il successo del contenimento del virus in Cina (sperando che non vi siano ritorni di fiamma) è anche dovuto alla tradizionale attitudine del popolo cinese nei confronti dell’autorità, attitudine che è sempre stata docile e disponibile. Nella Cina imperiale la popolazione acconsentiva a rinunciare anche alla libertà in cambio di pace e un minimo di condizioni di vita accettabili. Il valore primario per il popolo cinese, ancor di più del benessere, è dunque la stabilità. L’instabilità ha generato nel corso della storia del Paese milioni di vittime, e molti hanno ancora memoria storica di quanto accaduto nei secoli XIX e XX. Oggi la richiesta di benessere è aumentata, il Paese è cresciuto. Il Partito Comunista ha avuto il merito storico di generare una ricchezza mai sperimentata prima dal popolo cinese, e tutto ciò in soli quarant’anni. Tale veloce transizione ha generato genuina gratitudine da parte della popolazione, la quale è dunque spontaneamente disposta ad accogliere le direttive provenienti dall’alto. Un ruolo prezioso lo ha anche giocato la capacità di law enforcement del governo: i cinesi fanno sul serio, le disposizioni delle autorità vanno rispettate senza discutere. In Occidente è più complicato”.

(SB): “Di Cina si parla molto capendone poco. Di Iran, invece, si parla poco e se ne capisce ancor meno. Approssimativamente si dice che è una teocrazia, ma chi si è dato pena di esplorare l’Iran un po’ più a fondo sa che il clero non è omogeneo, che esistono centri di potere non in armonia tra loro, e che la religiosità popolare non è per forza collegata alle gerarchie religiose (per tacere dell’ateismo, anche quello presente). Come si è riflesso, tutto questo, sulla reazione iraniana?”

(AB): “L’Iran smentisce molti stereotipi, ed è dunque sotto diversi aspetti un Paese che sorprende. Per alcuni versi è più avanzato di quanto si potrebbe sospettare, per altri aspetti resta in via di sviluppo. Come avviene per tanti aspetti dell’esistenza, occorre guardare sotto la superficie. Cerchiamo di esplorare rapidamente alcuni profili della teocrazia sciita: sulla scena internazionale, interna, religiosa e sociale … diciamo subito che l’Iran è un pianeta diverso dalla Cina. Innanzitutto, l’Iran – va detto – non deve considerarsi Oriente, ma per molti versi Occidente. L’Oriente è la Cina, appunto, o il Giappone. L’Iran, o Persia, è un Paese mediorientale, di quel Medio Oriente di cui anche la cultura cristiana europea è figlia. Molti hanno una singolare attitudine a dimenticare che il cristianesimo non è una religione europea, ma appunto, come l’Islam e l’ebraismo, mediorientale. La teocrazia iraniana è priva di scrupoli. Potremmo dire che non esista un sistema politico peggiore di una teocrazia, poiché le dittature secolari provano a controllare solo il corpo dei sudditi, mentre quelle teocratiche tentano di controllare anche l’anima. Che poi ci riescano è un altro discorso. Fortunatamente, lo spirito dell’uomo non può essere privato dell’anelito verso la libertà, eppure le teocrazie ci provano. Il popolo iraniano avverte dunque tutta l’oppressione del sistema. Un 15-20% della popolazione iraniana sostiene il regime, perché ne trae beneficio. La maggioranza è indifferente o fortemente, sebbene silenziosamente, contraria al regime.

La preoccupazione del regime è che eventuali disordini legati alla gestione del Covid-19 portino a tumulti contro il governo e le istituzioni sciite. La popolazione era già prima in serie difficoltà economiche, con molti sulla soglia di sopravvivenza, disoccupazione diffusa e precarietà. Se a ciò si aggiungono le ripercussioni del virus, molti iraniani, soprattutto coloro che abitano nelle grandi città, in specie a Teheran, non hanno più molto da perdere: una scintilla potrebbe dunque far esplodere il
Paese.

Deve aggiungersi che il governo sciita non gode di molta popolarità. Diversamente dal governo cinese, quello iraniano a partire dalla rivoluzione del 1979 non ha migliorato granché la vita dei cittadini. Persino la repressione è più violenta di quella al tempo dello Scià. Quanto alla disciplina di fronte al dilagare del virus, le notizie che ci giungono dicono che la maggior parte della popolazione rimane a casa, più per paura del virus, che per rispetto delle disposizioni. C’è tuttavia un 20-30%, soprattutto giovani, che disubbidisce apertamente. In occasione dei festeggiamenti del nuovo anno persiano, il Nowruz (21 di marzo), molte famiglie si sono spostate nel Paese, con scarsa attenzione per i rischi di diffusione del virus.

La difficoltà a gestire adeguatamente il virus è d’altra parte simile a quella che affrontano anche altri Paesi, ricchi e poveri. L’Iran è un Paese a reddito medio, relativamente benestante grazie a petrolio e gas, anche se in questo momento in difficoltà, per via delle sanzioni americane. D’altra parte, proprio a causa delle sanzioni, nel Paese è sorta con gli anni un’industria domestica e una capacità produttiva che sta sfruttando nei limiti del possibile”.

(SB): “Si registrano reazioni popolari di ‘sfida’ al virus, o di accettazione, improntate a una visione religiosa e fatalistica? Ossia persone che pur distaccate dal clero sono credenti e che pensano che il virus non le possa toccare in virtù di una protezione divina, o simili? Risulta che posizioni sempre di questo tipo vengano espresse da una minoranza del clero, o dalla politica?”.

(AB): “Un conto è l’attitudine popolare nei confronti della religione e un altro è quello delle autorità ecclesiastiche. Così come anche chi non è credente non può non dirsi cristiano sotto certi aspetti, essendo stato comunque contaminato dalla cultura del cristianesimo. Ciò premesso, reputo che reazioni improntate al puro fideismo, all’affidamento alla protezione divina siano rare. In ogni caso, la Guida Suprema, Ali Khamenei, e il governo, raccomandano di seguire le istruzioni degli scienziati e dell’OMS. Anche i membri del governo quando si riuniscono indossano le mascherine, come abbiamo visto dalle immagini che ci giungono”.

(SB): “Nel mondo quali certezze Le sembra che siano scosse? Le reazioni dei singoli Paesi Le sembra siano state in linea con le loro tendenze politiche e culturali pre-Covid-19, oppure c’è stata qualche sorpresa? E come evolverà la situazione internazionale?”.

(AB):  “Pur ricordando quanto affermava un noto filosofo francese, che ‘non bisogna fare previsioni, specie quando queste riguardano il futuro’, qualcosa si può comunque dire, sulla base di quello che ci circonda. Poiché la sola cosa stabile al mondo è il cambiamento, anche l’ordine geopolitico mondiale si muove. E, in apparenza, sembra dirigersi verso il superamento del sistema unipolare, centrato sulla potenza politica, militare ed economica degli Stati Uniti d’America. Il nuovo ordine che si affaccia all’orizzonte non ha ancora contorni precisi. Esso potrebbe essere una co-gestione che include, insieme agli Stati Uniti, Cina, Russia e altre nazioni in posizioni più arretrate, come l’India e altre ancora. Quand’anche gli USA non fossero disposti a cedere spazi di potere (nessuno lo fa spontaneamente), la scena internazionale è questa. Un’altra opzione è quella che vede un passaggio da un multipolarismo imperfetto (oggi gli USA prevalgono, ma non sono più la sola grande potenza) a un multilateralismo che potremmo chiamare consapevole, dove le nazioni citate si accordano per una gestione coordinata e bilanciata degli affari del mondo, inclusi beninteso quelli sanitari.

La risposta dei Paesi colpiti dall’epidemia si è finora rivelata, in netta prevalenza, improntata a tener sempre conto degli interessi nazionali: economici, politici e d’immagine. Non vi è stata alcuna reale condivisione delle difficoltà, delle azioni e delle conseguenze della pandemia. E ad oggi non sappiamo nemmeno bene cosa succede nei Paesi poveri o emergenti. Il multilateralismo attivo sembrerebbe un orizzonte logico, ma la volontà non basta per attuarlo, servono anche condivisione di interessi e lungimiranza politica. Entrambe sono oggi assenti dalla scena. La tutela e la promozione del diritto internazionale e i vantaggi del multilateralismo vengono minati dagli Stati Uniti, che preferiscono perseguire politiche nazionaliste, sospinti da un messianesimo fondamentalista, quasi religioso, la nazione indispensabile, secondo il lessico di Clinton, voluta da Dio per governare un mondo recalcitrante. Di fatto il dio americano è quanto mai laico, votato a rendere tutti i cittadini del mondo consumatori passivi, obbedienti e privi di afflato politico. I Paesi che tentano di resistere a tale destino sono attaccati politicamente, economicamente e se necessario anche militarmente”.

(SB): “Non è possibile che i passi falsi compiuti da alcuni rappresentanti di tale ‘visione veterotestamentaria’ portino ad un indebolimento politico loro e della visione stessa? Ho in mente in particolare il presidente statunitense e il primo ministro britannico, che hanno preso rimarchevoli cantonate, almeno all’inizio dell’emergenza. O pensa che la cittadinanza sarà ancora più portata a radunarsi attorno a una ‘guida’ di quel tipo, dimenticando presto errori, gaffe e incoerenze?”

(AB): “È una questione di dinamiche di potere, in realtà. Le masse non hanno la forza di reagire, sono oggetti manipolati dall’industria dell’informazione. L’informazione occidentale è prodotta da tre agenzie di stampa, alle quali attingono i grandi giornali e le reti televisive di tutto il mondo, con l’eccezione dei Paesi ‘antagonisti’, Russia, Cina, Corea del Nord e altri minori. Vero, il voto garantisce qualche spazio di manovra, ma il bombardamento mediatico è decisivo e la vittima finisce per essere complice. Guardi, la nostra posizione, per usare un riferimento filosofico, è paragonabile a quella dei prigionieri della caverna di Platone, in cui colui il quale si libera e cerca di comunicare agli altri la realtà delle cose al di là delle ombre a cui i prigionieri sono abituati viene respinto e rischia di essere ucciso. Viene da pensare che o le pareti della caverna vengono fatte saltare in qualche modo, oppure occorre accettare il destino di restare incatenato ancora a lungo nella caverna. Tornando alla domanda sul futuro, che certo non possiamo conoscere, mi avventurerei a rilevare, da un punto di vista emotivamente ottimistico, ma ontologicamente pessimistico, che al temine della vicenda Covid-19 il mondo tornerà allo status quo ante. Potranno esserci degli aggiustamenti tecnici: alcune produzioni, come mascherine e ventilatori, saranno considerate strategiche e si smetterà di delocalizzarle, ma dubito che le forze che controllano la finanza e la politica del mondo traggano da questa vicenda le lezioni che andrebbero tratte.

La speranza è quella che il mondo intero (ma chi, come?) presti una maggiore attenzione alla possibilità che possano apparire altre future epidemie. I mezzi d’informazione hanno evocato l’ipotesi che il virus sia fuoriuscito da un laboratorio; senza prove definitive dobbiamo tuttavia prendere distanza da tale narrazione. È vero tuttavia che in laboratori di molti Paesi si compiono esperimenti pericolosi sui virus, e occorrerà dunque pensare a una più solida sicurezza di tali siti. Esistono convenzioni internazionali a questo fine, come la convenzione contro le armi chimiche [CWC, Chemical Weapons Convention (CWC), firmata nel 1993 ed entrata in vigore nel 1997, ndr], quella contro le armi biologiche [BWC, Biological Weapons Convention, aperta nel 1972 ed entrata in vigore nel 1975, ndr], il trattato contro la proliferazione delle armi nucleari [NPT, Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons, firmato nel 1968 ed entrato in vigore due anni più tardi, ndr]. Gli Stati Uniti, che pure hanno ratificato la seconda Convenzione, non consentono tuttavia verifiche agli ispettori internazionali. Vi sono poi alcuni Paesi che non hanno ratificato nessuno dei tre, come Israele, nessuno sa cosa avviene nei suoi laboratori, e questo vale anche per molti altri Paesi. La pandemia in atto dovrebbe essere dunque l’occasione per riflettere su tutto ciò, ma non sembra che questo stia avendo luogo”.

(SB): “Che sommovimenti vede a livello europeo? E che prospettive?”.

(AB): “Anche tra i Paesi europei è prevalso l’atteggiamento sopra menzionato, di difesa egoistica; far parte dell’Unione Europea è stato un vantaggio per alcuni e uno svantaggio per altri, come per l’Italia. Con il Covid-19 molti hanno aperto gli occhi su altre cose, e cioè che l’UE è una gabbia. Purtroppo, in Italia, la critica all’UE è stata dirottata e monopolizzata da alcune figure politiche tanto disperatamente in cerca di visibilità quanto prive di credibilità. I governi di ogni colore si sono allineati ai Paese del Nord, centrati sugli interessi delle élite finanziarie tedesche. L’Italia, a mio sommesso avviso, avrebbe interesse a recuperare una dose minima di sovranità costituzionale istituzionale e monetaria. Ricordo en passant che l’UE è un’istituzione con un pesante deficit di democrazia: le leggi sono preparate da funzionari sottomessi agli interessi delle multinazionali, poi fatte proprie da una non-eletta Commissione Europea e infine, dopo un breve passaggio all’Europarlamento, definitivamente approvate dal Consiglio Europeo.

A ciò si aggiunge la Banca Centrale Europea che si occupa esclusivamente di combattere il fantasma dell’inflazione, invece di lottare contro la disoccupazione e far crescere l’economia dell’eurozona, come fanno le banche centrali di tutti i Paesi al mondo.  Il sistema europeo è stato costruito sui valori di un liberismo che arricchisce l’1% contro la maggioranza di precari, disoccupati o esclusi. In una prospettiva di socialismo democratico, e a difesa dei valori di un realistico europeismo confederale, occorrerebbe smontare l’attuale assetto UE. Del resto, lo stesso nome di Unione Europea (enfasi su Unione) si è confermato un lessico mistificatore alla luce dell’attitudine dei cosiddetti partner (certo non amici) che hanno negato all’Italia persino le mascherine che L’Italia aveva acquistato legalmente o in transito.

L’UE rivela oggi la realtà di quelle false idealità fabbricate nel secondo dopoguerra. L’UE, una costruzione economica voluta sin dall’inizio quale arena altamente competitiva, una tecnostruttura non-democratica che impedisce ai Paesi membri di tutelare i propri legittimi interessi. Attraverso un sistema burocratizzato perverso controllato dalla Germania, i Paesi più fragili e sprovveduti vengono saccheggiati.

Fuggendo dunque da una logica nazionalista, come sopra già menzionato, varrebbe la pena riflettere sulla decostruzione dell’attuale impalcatura e la ricostruzione di un’Europa Confederale, nel riconoscimento della legittima identità di ciascun Paese membro. Alla luce di tale percorso, e dopo aver recuperato la sovranità, occorrerà concentrarsi sul lavoro per tutti, l’estensione del welfare, la tutela dei beni essenziali, le infrastrutture, l’ambiente, l’istruzione”.

(SB): “Lei non si sbilancia sugli scenari futuri, ma ci ha detto che La anima un ‘ottimismo emotivo’; e allora, se Le chiedessi di esprimere una speranza, che cosa vedrebbe nel ‘dopo virus’?”

(AB): “La speranza, o forse anche qualcosa di più, chiamiamolo un ‘investimento di pensiero’, riguarda un futuro migliore, seppure non mi sembra che esistano le condizioni storiche perché tale visione possa oggi avverarsi. Non resta dunque che lavorare in solitudine, o nell’ombra, per favorire la nascita di tali condizioni. La presa di coscienza che un mondo diverso è possibile, che altri sentieri possono essere costruiti per giungere a un diverso rapporto di forza tra dominati e dominanti. Vanno abbandonate le antiche certezze di un tempo, sulla pretesa forza del mondo del lavoro che, secondo la dottrina di un secolo fa, avrebbe cambiato il mondo. L’investimento va posto invece, a mio modesto ragionare, sulla capacità di ridisegnare i sentieri per ridurre il potere minaccioso di una nobiltà oligarchica sovranazionale centrata su una finanza predatoria che rappresenta lo 0,1% della popolazione del mondo. Ecco, un avanzamento lento di presa di coscienza, ma quotidiano, di tale orizzonte, sarebbe già molto. La prima barricata da superare è il sistema dell’informazione basato su un clero mediatico eticamente rinunciatario e un mondo accademico che alimenta una narrativa costruita dal potere in cambio di briciole, carriera e gratificazione narcisistica. Il mio umile contributo, da pensionato privilegiato, ma senza fonti d’informazione privilegiate, è volto solo ad arricchire una riflessione critica collettiva perché si possa ancora sperare in un mondo più libero e più giusto”.

Note

[1] La conversazione si è svolta l’8 aprile 2020. La presente trascrizione, con aggiustamenti, è stata approvata dall’Ambasciatore Bradanini, a cui va la riconoscenza mia e della Redazione.

[2] Alla religione e all’ateismo in Cina L’Ateo ha dedicato una serie di approfondimenti nel n. 115, 6/2017.