La peste a Sassari nel 1652
Giuseppe Spanu Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
La peste giunse in Sardegna su una nave catalana che attraccò nel porto di Alghero nell’aprile del 1652, e in poco tempo cominciò a diffondersi nel borgo. Forse sarebbe rimasta confinata in quel centro abitato se un gesuita non avesse violato il cordone sanitario e non fosse fuggito a Sassari, dove le precarie condizioni igieniche di una città con stretti vicoli medievali e senza fognature favorirono il dilagare del morbo. La pestilenza fu avvantaggiata anche dalle “frequenti riunioni religiose fatte per invocar Dio” [1]. A peggiorare la situazione contribuì il Consiglio municipale che non volle imporre restrizioni agli spostamenti, per non rovinare gli affari dei commercianti.
La peste così iniziò a mietere centinaia di vittime ogni giorno, finché il viceré di Sardegna Pedro Martìnez Rubio y Gomez (1614-1667) [2] decise di nominare due commissari sanitari con poteri straordinari per Sassari e la sua provincia: Juan Marìa Marqui Pirella (1600-1663) e Gavino Deliperi Paliacho (fine ‘500-1666). Pirella aveva fatto carriera nella macchina amministrativa spagnola del ducato di Milano dal 1630 al 1650, dove era stato testimone della peste manzoniana [3]. Deliperi apparteneva a una nobile e stimata famiglia sassarese. Perella e Deliperi stabilirono il loro quartier generale a Castel Aragonese (odierna Castelsardo), l’unica località risparmiata dalla peste e, forti dei loro poteri, imposero una quarantena draconiana sulla città di Sassari e il settentrione dell’isola, senza curarsi delle lagnanze dei latifondisti e dei mercanti. Tra i tanti provvedimenti emisero una grida che permetteva agli armigeri di uccidere chi fuggiva da un villaggio infetto per dirigersi verso un altro più sicuro [4].
Per rimediare alla conseguente carestia che rischiava di far scoppiare qualche rivolta popolare, Pirella e Deliperi decisero di requisire le riserve di grano immagazzinate nel vescovado di Alghero, che fecero macinare e cuocere in pani, per poi distribuirli gratuitamente alla popolazione affamata. Non è nota la reazione del vescovo Gaspare Litago (1600-1657). Pirella e Deliperi non si fecero intimidire neanche dalla spocchiosa nobiltà sassarese: quando seppero che l’aristocratica Eualia Gaya aveva violato la quarantena a Sassari per andare a pregare nella chiesa di san Francesco di Monte Raso, nei pressi di Bono, inviarono lì i loro armigeri che chiusero e murarono le porte e le finestre dell’edificio durante la messa, costringendo la nobildonna, i suoi familiari e il prete a trascorrere in tal loco l’isolamento [5]. Pirella e Deliperi trovarono anche dei volontari per la sepoltura dei cadaveri che si ammucchiavano nelle strade. Dopo alcuni mesi i casi di contagio diminuirono fino a sparire.
I due commissari sanitari riuscirono alla fine a debellare la terribile epidemia, anche se le perdite demografiche furono ingenti: solo a Sassari morirono 24.000 abitanti e ci furono 5200 sopravvissuti [56ta, invocata dai sassaresi, furono due uomini determinati e coraggiosi a fermare il mostro della peste con la quarantena. Ma ancora oggi i sassaresi festeggiano il 15 agosto la Madonna dell’Assunta che liberò la città dall’epidemia e pochi ricordano Perella e Deliperi.
Note
[1] Enrico Costa, Sassari, Gallizzi editore, Sassari 1976, p. 223.
[2] La Sardegna dal 1420 sino al 1714 fece parte prima del regno di Aragona e poi di quello di Spagna.
[3] Paolo Curreli, Il dittatore nuorese contro la peste, La Nuova Sardegna 15 aprile 2020, p. 38.
[4] Ivi, p. 39.
[5] Ivi.
[6] www.ceramichesarde.it/pagine/rubriche/il%grande%20flagello.html