Piergiorgio Odifreddi, Il genio delle donne. Breve storia della scienza al femminile, ISBN 978-88-17-14112-3, Rizzoli, Milano 2019, pagine 283, € 18,00.

Recensione di Maria Turchetto  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Ventiquattro storie di donne – di grandi menti femminili. Per dimostrarne l’ubiquità nel tempo storico, nello spazio geografico e anche nello spettro scientifico. Nel tempo storico si va da Ipazia di Alessandria (ca 360-415) a Maryam Mirzakhani (1977-2017), passando per Ildegarda di Bingen (1098-1179) e per le molte protagoniste che affollano gli ultimi tre secoli. Nello spazio geografico va segnalata l’inaspettata – per nulla conosciuta – Chien-Shiung Wu, la cui vicenda si svolge tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America. Quanto allo spettro scientifico, ci si muove tra fisica, astronomia, matematica, informatica, biologia…Una “faccia nascosta del mondo scientifico”: per la scienza ufficiale, che molto spesso ha disconosciuto ed emarginato queste “grandi menti femminili”; ma anche – nota Odifreddi – per gran parte delle riviste femminili (le “riviste da parrucchiera”, verrebbe da precisare) e più in generale per i media tradizionali e per i social contemporanei, che continuano a proporre come modelli femminili “ancora e sempre le top models, come nella peggior tradizione del maschilismo d’antan”.

Lascio ai lettori la piacevole lettura delle ventiquattro bervi biografie – che come precisa Odifreddi “non esauriscono ovviamente la lista delle grandi scienziate esistite” – per fare invece qualche considerazione sulle conclusioni del libro. Gli ostacoli all’accesso all’istruzione che fino a tempi non lontani hanno discriminato le donne sono oggi, almeno nei paesi occidentali e asiatici, superati. In questi paesi si registra addirittura un cospicuo sorpasso delle donne diplomate, laureate e dottorate rispetto agli uomini. A questo punto, tuttavia, “il tubo perde”: l’afflusso all’istruzione superiore non si traduce ancora in una parità nell’accesso ai vertici delle carriere. Secondo Odifreddi, “per una lunga serie di motivi culturali e naturali di vario tipo: sociologico, psicologico e biologico”.

 

Dal punto di vista sociologico, secondo l’autore, “anche dove la discriminazione è ormai venuta meno, rimangono in piedi molti altri ostacoli. Ad esempio, lo stereotipo che presenta la ricerca scientifica come un’attività tipicamente maschile tende a dissuadere le donne dall’intraprenderla”. Dal punto di vista psicologico “molte donne sembrano percepire istintivamente non solo una difficoltà di conciliazione, ma anche una vera e propria incompatibilità tra la ricerca e la maternità”. Devo dare una (piccola) tiratina d’orecchi a Odifreddi su questo punto: davvero pensa che la difficoltà di conciliare ricerca e maternità sia solo una questione di “istinto” e di “psicologia”? Davvero non c’entra nulla l’organizzazione sociale? Personalmente metterei anche questo problema nel capitolo “sociologia”, senza attribuirlo per intero alla mera percezione (distorta?) delle donne. Dal punto di vista biologico “non sembrano esserci grandi differenze nelle medie delle prestazioni matematiche e verbali degli uomini e delle donne”, solo piccole differenze a favore degli uomini, ma “piccole differenze al top delle prestazioni possono provocare grandi differenze al top delle selezioni”. Anche qui mi permetto di avanzare un dubbio: davvero le selezioni sfavorevoli alle donne dipendono da problemi biologici? Gli stereotipi culturali non c’entrano per nulla e non influenzano i selezionatori?

 

C’è un punto delle conclusioni che mi trova invece pienamente d’accordo. Scrive Odifreddi: “La rimozione degli ostacoli sociologici che vengono frapposti alle donne nella scienza porterà dunque nel tempo a un sostanziale aumento del numero di scienziate nelle carriere e nei riconoscimenti. Ma rimarrà probabilmente un residuo di ostacoli psicologici alla parità, alla luce del fatto che molte donne continueranno a non essere interessate al perseguimento di posizioni dirigenziali o di lavori accademici che pretendono un totale coinvolgimento emotivo o mentale, oltre a un orario di lavoro di ottanta ore settimanali”. Ma si tratta davvero di un limite? Non sarà invece – si chiede Odifreddi – una preziosa lezione “più da elogiare e imitare, che da criticare e rimediare”? Sarebbe davvero il caso di “domandarci se posizioni o lavori […] che richiedono un tale livello di intensità e dedizione siano aspirazioni sensate da avere in assoluto: non soltanto per le donne, ma anche per gli uomini”. Domanda non banale davvero e saggia conclusione di un bel libro.