Internet ci rende stupidi o intelligenti? Un percorso bibliografico

Maria Turchetto   Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Internet ci rende stupidi o intelligenti? Questa domanda incontra – come spesso avviene nell’era dei media digitali – molte posizioni contrapposte, estremamente (eccessivamente, a mio avviso) polarizzate tra “apocalittici e integrati” [1] e ben poche risposte equilibrate. Perciò sarà il caso di pensarci a fondo e con calma, seguendo in questo senso, in prima battuta, i detrattori della rete che la accusano di indurre superficialità e fretta eccessiva. Alcune letture attente potranno aiutarci.

I detrattori della rete

Che internet ci renda stupidi è la tesi – molto argomentata – di Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina Editore 2011. Si tratta di un libro molto citato e molto commentato, cui riserviamo perciò una più ampia recensione a parte. La conclusione di questo lungo saggio, particolarmente interessante per la ricostruzione delle grandi rivoluzioni nella tecnologia comunicativa – dall’ideazione dell’alfabeto alla cartografia, dagli orologi alla stampa tipografica – che hanno cambiato non solo la cultura ma anche il nostro cervello, è che la rete e i media digitali forniscono informazioni ma contemporaneamente anche distrazioni e interruzioni continue, rendendo la nostra attenzione frammentaria e mettendo a rischio il pensiero critico, la capacità di riflettere e di pensare in profondità. Per usare una metafora dell’autore, da “coltivatori” e “fabbricatori” di pensiero, quali ci ha resi soprattutto il libro stampato, stiamo regredendo a “cacciatori e raccoglitori” di idee – per di più frammentate, poco vagliate, spesso incontrollate.

Il libro di Carr, come dicevo, ha avuto molta risonanza, anche in Italia. L’autore è stato intervistato [2], il libro commentato, recensito, discusso nell’ambito di convegni dedicati all’argomento. Tra i tanti commenti, segnalo qui l’ottimo articolo di Riccardo Ridi, Apocalittici e integrati del web: internet ci rende stupidi o intelligenti?, in AIB studi, vol. 52, 1, 2013, pp. 135-142. Si tratta di un raro caso di risposta equilibrata alla domanda ripresa nel titolo. Ridi è docente di biblioteconomia ed è stato direttore della biblioteca della Scuola Normale di Pisa, dunque di libri stampati se ne intende e possiamo credergli quando accusa Carr di attribuire “troppa importanza alla tecnologia della carta stampata e rilegata […]. Non solo il web, ma anche una ricca biblioteca cartacea o un ampio apparato di note erudite rischiano di distrarre”. In conclusione, “sta a ciascuno di noi trovare il giusto equilibrio fra forze centrifughe e centripete, fra lettura intensiva ed estensiva, fra approfondimento e aggiornamento, fra lavoro solitario e cooperativo”: nessun “determinismo tecnologico” ci priva davvero di queste scelte.

C’è un passaggio dell’articolo di Ridi che tuttavia non mi trova d’accordo: l’autore ritiene infondate le preoccupazioni di Carr relative al fatto che il web “sta cambiando il nostro cervello”, sostenendo che i cambiamenti di questo genere seguono “le complesse leggi e i tempi lunghi dell’evoluzione naturale (che agisce sulle strutture conoscitive di tipo biologico)” diversamente dalla “evoluzione culturale (che plasma quelle sociali)”. In realtà il nostro cervello è davvero plasmato fisiologicamente dalla cultura – e cambia materialmente con le sue trasformazioni. Lo mostra bene un altro libro importante (anche questo merita una recensione a sé): Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio 2013. Spitzer è un neuroscienziato che studia i “cambiamenti cerebrali indotti dall’apprendimento”. Il libro spiega con chiarezza la fisiologia dell’apprendimento e della memoria, i complessi processi attraverso cui formiamo “mappe mentali” collegando aree visive, uditive, motorie. Fornisce anche una nozione di “profondità” (dell’apprendimento, del pensiero, della memoria) che rinvia al numero di sinapsi attive: esse formano “tracce strutturali” più o meno complesse ed efficienti che possono rafforzarsi, migliorare o andare incontro al declino – la “demenza” evocata nel titolo. Si tratta dell’aspetto più interessante di questo saggio, che tuttavia rischia di perdersi in una condanna senza appello di ogni tipo di supporto digitale. Computer, lavagne interattive, videogiochi, navigatori satellitari, calcolatrici elettroniche, smartphone, e-book sono comunque, per l’autore, “macchine per ostacolare l’apprendimento”, che “ci sottraggono lavoro mentale” rendendoci, appunto, dementi. Un allarme così generalizzato rischia, a mio avviso, di risultare inefficace. Non c’è dubbio che molte ore passate davanti alla televisione o impegnate nei videogiochi rimbecilliscano – rendano “dementi” – bambini, ragazzi, adulti e anziani e che i soggetti più esposti a questo rischio siano i figli delle classi povere, parcheggiati e sedati in questo modo in mancanza di alternative. E senz’altro occorre prudenza nel proporre media digitali come supporti all’insegnamento nelle scuole, specie nella prima infanzia. Ma sostenere che i nuovi supporti eliminino competenze senza crearne alcuna mi sembra francamente eccessivo.

Uno dei capitoli del libro di Spitzer è dedicato ai rischi insiti nei social network “un elemento ormai imprescindibile del mondo giovanile”, foriero di grandi cambiamenti sul piano dell’emotività e della socializzazione. La letteratura su questo argomento è ormai sterminata – e quasi sempre avversa ai social. Mi limiterò a citare due testi recenti. Jean M. Twenge, Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, Einaudi 2018: secondo l’autore, i social hanno preso il sopravvento sui rapporti faccia a faccia. I giovani di oggi sono più aperti e più attenti delle precedenti generazioni, ma anche più ansiosi e infelici. E sono immaturi, infantili: non bevono, usano meno droghe e fanno meno sesso, ma sono anche meno pronti ad affrontare la vita reale. Matteo Lancini (a cura di), Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa, Raffaello Cortina Editore 2019, libro collettivo che traccia il profilo di una generazione cresciuta “nella rete”, inducendo gli adulti a interrogarsi su come distinguere un uso adattivo dei social e dei videogiochi da un sintomo di malessere o dipendenza. Cyberbullismo, sexting, gioco d’azzardo e, in modo particolare, il ritiro sociale sono alcuni dei comportamenti affrontati in questo testo, ricco di indicazioni sui motivi della loro diffusione e sulle modalità di intervento.

I fautori della rete

Ma è tempo di passare alla letteratura apologetica del web e dei media digitali. Un vero must, in questo senso, è David Weinberger, La stanza intelligente. La conoscenza come proprietà della rete, Codice Edizioni 2012. Il libro si preoccupa in primo luogo di sdrammatizzare l’allarmismo nei confronti delle tecnologie digitali, in particolare il rischio di un “sovraccarico cognitivo” che potrebbe nuocere alla capacità di pensare. Il termine “sovraccarico cognitivo” (information overload) è stato coniato negli anni ’60 con riferimento alla comunicazione di massa di tipo televisivo ed è passato poi a descrivere le dipendenze da internet in termini di disturbo psichico. Per Weinberger “il sovraccarico cognitivo non è una sindrome psicologica ma una condizione culturale” quanto mai auspicabile, dal momento che “la paura che ci tiene svegli la notte non è che questa massa di informazioni ci faccia venire un esaurimento nervoso, ma il non possedere tutte le informazioni di cui avremo bisogno”. La rete risolve il problema e vanifica questa paura, rendendo disponibile una massa sterminata di informazioni.

Il primo capitolo parla della “piramide DIKW”, un modello che stabilisce un ordine gerarchico tra data, information, knowledge e wisdom. Ora non c’è dubbio che la rete renda accessibili come non mai “dati” e “informazioni”, ma il passaggio con cui Weinberger attribuisce ad essa anche la “conoscenza” (“la conoscenza è una proprietà generale della rete – e non dei singoli portatori di sapere”) risulta piuttosto disinvolto. L’autore precisa che si tratta di una conoscenza diversa rispetto al passato: meno solida, perché meno vagliata e controllata, ma molto più estesa; meno soggetta alle autorità tradizionali e più “organizzata dal basso” – magari attraverso gli amici su Facebook e i contatti su Twitter, come Weinberger suggerisce. Sarà anche un accesso “democratico” alla conoscenza, ma francamente non mi sembra una buona strada per raggiungere il vertice della piramide DIKW, la “saggezza”.

Ma non c’è dubbio, la grande disponibilità di informazioni consentita dalle tecnologie digitali è una ricchezza per tutti. Come scrive Giuseppe Granieri, Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Laterza 2009, “poiché il costo per distribuire informazione e cultura è prossimo allo zero, sarà l’individuo a decidere cosa per lui è ‘pertinente’. Quindi, senza scandalizzarci, qualcuno troverà di qualità le ricette di Nonna Stella (oltre centomila visualizzazioni su YouTube), qualcun altro si appassionerà alla filologia bizantina. E ci guadagnano tutti, perfino il più snob appassionato di filosofia teoretica perché, rispetto al modello precedente, se è vero che tutti possono immettere contenuti ed aumentano i contenuti potenzialmente irrilevanti, è anche vero che aumenta anche la disponibilità di contenuti di filosofia teoretica”.

Riassunti di riassunti, condensati di condensati

Devo parzialmente smentire Giuseppe Granieri. In rete le ricette di cucina si trovano senz’altro a iosa e in una forma “accresciuta” – corredate di immagini e filmati – rispetto al passato. Per la filosofia teoretica le cose non vanno altrettanto bene: si trovano alcuni articoli recenti ma non le grandi opere del passato, disponibili al massimo in una forma assai “diminuita”: citazioni decontestualizzate, “riassunti di riassunti, condensati di condensati”. Traggo quest’ultima espressione da un romanzo davvero profetico: Ray Bradbury, Fahrenheit 451, scritto nel 1951 e oggi disponibile in molte edizioni. Bradbury sottolinea le conseguenze dell’accelerazione che, guarda caso, è la “parola chiave” del libro di Granieri. “Ora immagina l’uomo del diciannovesimo secolo con i suoi cavalli, cani, carretti: il moto lento. Nel ventesimo secolo, accelera […]: libri più brevi, condensati, riviste tascabili, tabloid […]. I classici ridotti a quindici minuti di un programma radiofonico, compressi per riempire i due minuti di una rubrica sui libri, confinati nelle dieci o dodici righe di un dizionario […]. Ora accelera ancora. Clicca e guarda, occhio e foto, scorri qui, scorri là, ritmo veloce, su, giù, dentro, fuori, perché, come, chi, cosa, dove, eh? Uh! bang, bing, bong, boom! Riassunti di riassunti, condensati di condensati […]. Una colonna, due frasi, un titolo”.

Come dicevo, gli effetti dell’accelerazione descritta da Bradbury sembrano travolgere la filosofia teoretica più che le ricette di cucina. Ne ho fatto una prova recente con il Fedro di Platone – testo citatissimo dagli autori che dissertano sulle potenzialità e sui rischi del web perché contiene una riflessione su una “rivoluzione culturale” davvero cruciale, quella che ha portato dalla trasmissione orale del sapere a quella scritta. Ne parla estesamente Nicholas Carr, ma – solo per fare un altro esempio – anche Raffaele Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti 2012. E si capisce: gli argomenti che nel dialogo Socrate e Fedro si scambiano pro e contro la scrittura sono straordinariamente simili a quelli che oggi si spendono pro e contro il web, tanto che sarà utile farne anche qui un breve cenno. La scrittura rende più facile la conservazione e la trasmissione dell’informazione, sostiene Fedro (ha portato a Socrate un discorso scritto di Lisia, che Socrate può così commentare anche se Lisia non è presente e Fedro non lo ha imparato a memoria); la disponibilità di informazione non aumenta né la memoria né la sapienza, ribatte Socrate; inoltre affidare il sapere a un oggetto esterno ne fa venir meno il carattere sociale, la synousia, cioè lo stare insieme che fondava il sapere collettivo delle antiche scuole filosofiche. Eppure Platone sceglie la scrittura – pur evidenziandone i rischi in questo dialogo – e mi sembra che non sia per questo diventato stupido. E allora forse possiamo essere cautamente ottimisti anche per la “rivoluzione culturale” rappresentata dal web.

Ma – per riprendere il discorso dopo questa parentesi – rimane il fatto che il testo completo del Fedro nel web non si trova. Se ne trovano citazioni, riassunti, parziali traduzioni. Certo, possiamo sempre ricorrere all’e-commerce e farcene recapitare a casa un’edizione stampata su carta da un corriere di Amazon, senza doverci scomodare per andare in biblioteca o in libreria. Meglio ancora, possiamo acquistarne a prezzo modico e “con un clic” una versione per e-book. Ma quanti lo faranno? Quanti si accontenteranno invece dei “riassunti di riassunti, condensati di condensati”? Molti, ve lo dico per l’esperienza di anni di insegnamento a millennials: ragazzi capaci di ricavare dal web bibliografie sterminate e … di non leggere nessuno dei libri elencati. Barbari, diranno certi vecchi topi di biblioteca. E forse Alessandro Baricco non aveva tutti i torti quando, in un libro di un po’ di anni fa – Alessandro Baricco, Barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango Libri 2006 – prendeva le distanze da questo atteggiamento: “Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico”.

Spendo ancora due parole sul saggio di Baricco, che appartiene alla (rara) letteratura equilibrata sull’argomento. Baricco suggerisce un atteggiamento di apertura al nuovo, a quello che definisce un nuovo modo di “incontrare il senso”: non più affidandosi, come nella cultura “romantica” dei due secoli precedenti, alla profondità del sentire, ma a un “surfing dell’esperienza”, alla ricerca di un “senso distribuito in superficie”. Un modo inedito di rapportarsi alla cultura, che tuttavia ha una forma ancora incerta e forse non funziona ancora bene. Staremo a vedere, senza pregiudizi ma con prudenza – quest’ultima mi sembra davvero necessaria.

Molte posizioni estreme, dunque, sugli effetti del web – e ben poche posizioni equilibrate. L’ho fatta lunga e i lettori hanno tutto il diritto di chiedersi: ma insomma, in conclusione, internet ci rende stupidi o intelligenti? La risposta migliore che ho trovato – e che condivido pienamente – è a conclusione del citato articolo di Riccardo Ridi: “credo che internet non ci renda necessariamente tutti né più stupidi né più intelligenti, ma che sia un potentissimo strumento che permette sia agli stupidi che agli intelligenti di moltiplicare enormemente sia gli effetti che la visibilità di tali qualità”.

Note

[1] L’espressione – diventata quasi proverbiale – si deve a Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani 1964. Si riferiva ai fautori e detrattori della comunicazione di massa.

[2] Si veda l’interessante intervista a Nicholas Carr, Internet ci rende sempre più stupidi. Per colpa sua non siamo più critici su Repubblica:

https://www.repubblica.it/cultura/2016/05/08/news/nicholas_carr_si_per_colpa_sua_non_siamo_piu_critici_139342271/?ref=search