Di Logos e Like. Conversazione sulla Popsophia con Lucrezia Ercoli
Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Lucrezia Ercoli è dal 2011 direttrice artistica del Festival “Popsophia” [1]. Insegna Storia dello Spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria e di Macerata ed è autrice di diversi volumi tra cui: Philosophe Malgré Soi. Curzio Malaparte e il suo doppio (Edilazio, 2011); Filosofia dell’umorismo (Inschibboleth, 2013); Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma (Mimesis, 2014); Che la forza sia con te! Esercizi di Popsophia (Il Nuovo Melangolo, 2017). Ho raggiunto Lucrezia per una conversazione sulla sua ultima fatica, Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer (vedere recensione) [2].
Stefano Bigliardi (SB): “Che cosa significa popsophia, che cosa caratterizza le tue indagini e attività filosofiche? Porti la filosofia fuori dalle accademie oppure fai di ciò che è pop un oggetto accademico? E in ogni caso, perché questa scelta?”.
Lucrezia Ercoli (LE): “Quando abbiamo scelto questo termine come nome del nostro festival, nel 2009, ‘Popsophia’ era un vero e proprio ossimoro, rappresentava una contraddizione, un tentativo spudorato e provocatorio nell’universo degli eventi italiani dedicati alla cultura ‘alta’ e alla filosofia. Sicuramente un primo significato è quello di ‘filosofia popolare’: una filosofia che torna in piazza, con filosofe e filosofi che parlano a una vasta platea di non addetti ai lavori e si sforzano di utilizzare un approccio diverso da quello, spesso asfittico, delle accademie. Ma lo sforzo che facciamo al festival va oltre questo approccio extra-accademico. ‘La filosofia è in un rapporto essenziale e positivo con la non-filosofia: essa si rivolge direttamente ai non-filosofi’ diceva Gilles Deleuze, padre della pop philosophie. Popsophia, dal mio punto di vista, vuol dire estendere lo spazio d’azione della filosofia. È necessario dare spazio a una nuova generazione di giovani studiosi e artisti, per la maggior parte (colpevolmente) esclusi dalle università italiane. Bisogna entrare nella trama narrativa della nostra cultura, scegliere nuovi oggetti di interesse, confrontarsi con l’immaginario del nostro tempo, lasciarsi interrogare dai nuovi miti e dai nuovi riti della nostra contemporaneità. E, non da ultimo, esplorare nuovi linguaggi e nuovi format. Dal punto di vista editoriale, la popsophia torna a esplorare forme alternative al saggio accademico. Durante il festival lavoriamo costantemente alla costruzione di format alternativi alla classica lectio magistralis del filosofo mainstream. Negli ultimi anni abbiamo costruito il ‘philoshow’, una sorta di concerto pop filosofico dove il pensiero si fa spettacolo, un mash-up che unisce musica dal vivo, montaggi cinematografici, regia televisiva e performance teatrali. Sono convinta che la (pop)filosofia debba lasciarsi provocare dal presente e, perché no, provocare il presente a sua volta”.
(SB): “In certi passaggi della tua analisi sembra che il fenomeno Ferragni non faccia che estendere e amplificare elementi di figure del passato pre-new media: Mike Bongiorno analizzato da Umberto Eco, la Brigitte Bardot di cui scriveva Simone de Beauvoir ... Riconduci alcune delle sue caratteristiche anche a figure, narrazioni e concetti religiosi (cfr. p. 87), quindi vecchi come l’umanità. Ma in questa figura, e in quelle analoghe, c’è, rispetto al passato, solo un aumento numerico in termini di visibilità, rapidità, incassi (i 15 minuti di celebrità di Andy Warhol diventati 15 secondi) oppure c’è anche in atto un mutamento, per così dire, di specie?”.
(LE): “Con i new media sicuramente abbiamo assistito ad un vero e proprio ‘cambio di paradigma’ per quanto riguarda il modo di intendere il successo. È completamente sdoganata l’idea che la fama non sia connessa a delle qualità determinate. La rete ha invertito la rotta: se prima si andava dal mondo dello spettacolo a quello delle celebrities influenti, oggi il percorso (anche se non sempre) parte dalle influencer e arriva allo star system. Un successo che nasce dal basso: dal gradimento dei pubblici connessi e dai mille piani multimediali.
La possibilità di immedesimarsi nell’American dream di una ragazza qualunque è una delle chiavi del successo del suo mito prêt-à-porter. Un culto basato sulla simulazione di una normalità eccezionale in cui è facile identificarsi. Tutto è narrato all’interno dei codici dell’ordinario. L’everywoman, una comune mortale, entra a corte e conquista il trono. Anche la vita di coppia dei Ferragnez è iscritta nel paradigma narrativo della normalità. Nessun eccesso, nessuna perversione, nessuna dipendenza. Né alcol né droghe. La normalità ordinaria di una coppia di giovani genitori che si dispiega in un contesto straordinario. L’antitesi della vita spericolata dei divi d’antan.
Però il divismo è sempre esistito: paragonare fenomeni contemporanei con fenomeni del passato, anche recente, è utile per capire meglio la nostra esigenza di creare ‘idoli’ e venerare ‘divi’.
Anche l’odio è un sentimento antico e ineliminabile, ma il web è un megafono che ha esteso a dismisura le sue potenzialità: una disinvoltura alimentata dall’assoluta mancanza di responsabilità garantita dall’indistinto popolo della rete. La forza dell’insulto si autoalimenta nella nostra echo chamber dove sentiamo solo l’eco del nostro parlare, viviamo in una bolla nella quale rimbomba la nostra ira digitale, espansa da altre voci che si limitano a confermare ciò che già pensiamo.
L’universo dei social è sempre diviso tra follower ed haters, una dicotomia funzionale ad allargare l’impatto mediatico del messaggio. Gli influencer sanno benissimo che quando si odia così tanto una cosa inevitabilmente non si è più separati da lei, odiare vuol dire stabilire un legame indissolubile. Il vero spettro temuto dall’influencer è l’indifferenza.
Per decifrare queste mutazioni del presente, credo che l’approccio della pop filosofia sia utile proprio perché capace di costruire ponti tra discipline apparentemente lontane e di intuire connessioni tra passato e presente. È importante evidenziare le differenze ma anche sottolineare i punti di continuità che rintracciano ‘archetipi’ che continuano a puntellare la storia dell’umanità.
Un mio punto di riferimento stilistico, infatti, è Mythologies di Roland Barthes che spazia tra mondo classico e universo contemporaneo, tra epica e cinema, tra poesia e televisione”.
(SB): “Mi colpisce il passaggio ‘una parte delle motivazioni [del successo di Ferragni] rimane comunque imponderabile, così come la viralità di un fenomeno rimane largamente imprevedibile’ (p. 58). Allora non tutto si spiega in modo chiaro, meccanico, automatico, non basta avere letto gli autori classici che mobiliti nel tuo saggio? Il successo di Ferragni non è né un’equazione né algoritmo? Che cosa, di lei, continua a sfuggire all’analisi filosofica?”.
(LE): “Gli scaffali delle librerie sono pieni di manuali che insegnano ad avere successo ‘in dieci mosse’, che pretendono di aver individuato la formula infallibile per fare soldi in poco tempo, la ricetta per creare a tavolino un fenomeno virale o per diventare un’influencer da milioni di follower. Lascio volentieri il mestiere ai guru e ai life coach.
Non credo che la viralità di un fenomeno sia totalmente prevedibile a partire dagli ingredienti di partenza, né credo che un fenomeno virale di questa portata si possa costruire a tavolino. Certo, paragonarla alle altre influencer è riduttivo, la Ferragni è un caso a sé. Basterebbe ricordare che nel 2015 Harvard ha aperto un case study per analizzare il successo del suo blog The Blonde Salad, aperto nel 2009. Chiara Ferragni sicuramente è stata la pioniera italiana della democratizzazione della Moda profanata dall’invasione delle fashion blogger; prima degli altri ha intercettato una tendenza che oggi è dilagante. Ma non è solo questione di intelligenza, di talento o di scaltrezza; gioca un ruolo cruciale anche la fortuna, per dirla alla latina, e non è totalmente controllabile come vorrebbero gli esperti di marketing.
La filosofia spesso si avvicina ai fenomeni della cultura di massa con l’arroganza e la presunzione di spiegare tutto con le armi del logos. Attraverso la mia analisi, invece, cerco innanzitutto di raccontare la complessità del ‘caso Ferragni’ per mettere in luce i tanti cambiamenti sociali, culturali, tecnologici di cui, inconsapevolmente, è portavoce.
In ogni caso, i meccanismi di imitazione e rispecchiamento che ci legano agli influencer ci dicono chi siamo. L’imitazione, lo ricordava già Aristotele più di 2500 anni fa nella sua Poetica, è un veicolo di piacere e conoscenza, una caratteristica ineliminabile, fisiologica e necessaria del comportamento umano. E tutte le generazioni hanno sognato di assomigliare ai loro idoli, hanno cercato modelli a cui ispirarsi. Vogliamo essere (o almeno assomigliare) agli altri che ammiriamo.
Qualcuno ha parlato di bovarismo, prendendo in prestito la storia di Emma Bovary per spiegare la tendenza a concepirsi altro da ciò che si è. Madame Bovary, insoddisfatta della sua noiosa vita matrimoniale, imita le gesta delle protagoniste dei romanzi d’amore che legge voracemente. Emma desidera avere una relazione extraconiugale solo per imitare le sue eroine di carta, ma la prova della realtà distrugge i suoi sogni di gloria. Ci piace pensarci diversi da come siamo, semplicemente imitando lo stile di qualcun altro, plasmando la nostra esperienza su cliché vissuti da altri (siano essi classici della letteratura o contemporanee fashion blogger)”.
(SB): “La tua è un’analisi equilibrata. Cerchi di comprendere il fenomeno-Ferragni, non di farne l’elogio né di lanciare un anatema. Mi sembra che ti riesca bene. Tuttavia, se smetti per un attimo i panni della studiosa neutrale, ma fai entrare nel campo della riflessione le tue scelte di vita, gli autori che tu apprezzi e così via, non trovi che una società influenzata, anzi guidata, da figure come quella della Ferragni sia una società dal pensiero impoverito, e pertanto per te indesiderabile? Non mi riferisco al fatto che sia una figura di consumo e che esorta al consumo, attenzione. Anche l’edonismo può avere, e anzi ha, una sua giustificazione e genealogia filosofica di tutto rispetto. Mi riferisco proprio all’atto del pensare e al tipo di pensiero che Ferragni incoraggia e sfrutta. Dopotutto è un’influenza che si gioca su slogan, quindi pensieri, semplicistici, tautologici, immediati. Si tratta di forme del pensiero stilizzate, atrofizzate, avvizzite”.
(LE): “È proprio a partire dalle mie scelte di vita e dalle letture che hanno influenzato la mia formazione che non sopporto gli ‘intellettuali organici’ che pretendono di distinguere tra buone e cattive influenze, tra buoni e cattivi maestri. Dai tempi della Repubblica di Platone, i filosofi che pretendono di guidare la società non hanno raggiunto risultati desiderabili.
Il punto non è rendere la Ferragni una filosofa, prendendo il suo linguaggio come riferimento per il pensiero contemporaneo. Ma analizzare il linguaggio degli influencer e le loro strategie comunicative per comprendere alcune trasformazioni in atto che coinvolgono le nostre ‘identità digitali’.
L’indignazione e il tono scandalizzato spesso servono solo per farci sentire in pace con la nostra coscienza e per avere l’approvazione della nostra ‘bolla’, altrettanto indignata e scandalizzata. Prima di puntare il dito contro gli altri, meglio guardare la trave nel nostro occhio: il nostro dibattito culturale è peggiorato, incagliato in ricette semplicistiche, ovvietà, retorica, pensieri stilizzati. Sicuramente non per colpa di Chiara Ferragni.
Per onestà intellettuale, credo che invece vada sottolineata l’evoluzione delle posizioni di un’influencer come Chiara Ferragni che usa più responsabilmente il suo ruolo. Gli influencer non sono solo fenomeni di marketing, non hanno solo il potere di orientare i consumi, ma anche il potere di modificare i comportamenti e le opinioni dei loro follower. Più degli intellettuali, più dei politici. Gli influencer, volenti o nolenti, sono degli opinion leader e sono un tassello importante per plasmare il nostro immaginario.
In occasione della ‘Giornata contro la violenza sulle donne’, Chiara Ferragni ha deciso di utilizzare il suo potere mediatico per parlare di questo tema. In un lungo video di dieci minuti – in cui con termini convincenti e documentati, ma espressi con un linguaggio immediato e semplice – parla di victim blaming (cioè, dell’attribuzione alla vittima della responsabilità della violenza subita, come accade troppo spesso nella narrazione mediatica di stupri e femminicidi), ma anche di slut shaming, revenge porn, di femminicidio, di cultura patriarcale, della necessità di una rete di solidarietà femminile. Il tutto a una platea di giovani che molto probabilmente non ne avevano mai sentito parlare. Il risultato? Milioni di visualizzazioni e di commenti, di storie e di condivisioni. E di nuove consapevolezze di cui abbiamo estremo bisogno”.
(SB): “Un discorso analogo vale per l’etica di Ferragni. Certo, incarna un’idea di emancipazione femminile e esorta occasionalmente a fare cose ‘buone’ come la donazione al San Raffaele, ma una società, in fondo, non può essere funzionale se si affida solo alle campagne giocate sul like e sul clic. Serve una visione ampia e articolata. Essere forti, positive, libere ... Ma libere di cosa? Di fare shopping? E davvero può nascere una spinta alla libertà da un’attività, quella commerciale, che per costituzione si basa sulla manipolazione, persuasione finalizzata a far comprare cose che tutto sommato non servono e pertanto insincera e volta a trattare il prossimo come mezzo, non come fine?”.
(LE): “Non credo ci sia bisogno di aggiungere una voce al coro degli intellettuali nostrani, tutti critici del consumismo, pronti a predicare bene in pubblico contro ‘i modelli mercificati del turbo capitalismo’ e a razzolare male in privato. Trovo molto deprimente la riproposizione in chiave laica dell’adagio teologico il denaro è ‘lo sterco del demonio’. Spesso finisce per essere la scusa per avere il patentino di censori dei comportamenti altrui. Sono convinta che molte delle critiche piovute addosso a Chiara Ferragni siano dettate da un atteggiamento moralista e benpensante che si esercita perlopiù sul genere femminile. Nel libro tiro in ballo la ‘libertà’ perché credo che sia un concetto da ribadire con forza ogni volta che si fa riferimento all’identità delle donne.
Cediamo facilmente alla tentazione di voler spiegare alle ragazze qual è il giusto modo di comportarsi, quali sono i veri valori, come va usato il proprio corpo, come bisogna esprimere la propria sessualità, come vanno usati i propri talenti. Le ‘brave ragazze’ non dovrebbero trascorrere troppo tempo a fare shopping, non dovrebbero desiderare di circondarsi di cose belle e inutili acquistate con i soldi che hanno guadagnato. Mi viene in mente la questione ‘influencer nei musei’, che è servita a svelarci l’inutile e spesso nociva polarizzazione delle opinioni sul web, sempre scisso tra accusatori indignati e difensori convinti. I critici apocalittici che si sono scagliati contro la Ferragni agli Uffizi o contro l’Estetista Cinica ai Musei Vaticani hanno mostrato un’arroganza moralizzatrice e paternalista a mio avviso ridicola. Come spesso accade a chi si prende troppo sul serio, gli intellettuali – nel nobile tentativo di elevare le masse con ben altri esempi edificanti – sono diventati la triste parodia di se stessi. Non posso, quindi, che essere d’accordo con il direttore degli Uffizi che, nel difendere la Ferragni, ha usato la categoria del ‘puzzalnasismo’, stigmatizzando una cultura autoreferenziale che non ha alcuna intenzione di dialogare con il presente. I cambiamenti non vanno sempre demonizzati, spesso nascondono conseguenze positive: l’influencer può aiutarci a rompere il valore elitario che rende il museo un luogo sacro e inviolabile, lontano dalle masse e accessibile a pochi eletti.
Anche l’atteggiamento giudicante di un certo femminismo moralista è molto pericoloso. Chiara Ferragni, per me, è un pretesto per tirar fuori un tema che mi sta a cuore. Già nel 2011 a ‘Popsophia’ avevamo organizzato uno spettacolo dal titolo ‘Donna/Danno. Contro il femminismo moralista’, nel tentativo di decostruire gli stereotipi della ‘vera donna’ e della ‘brava bambina’, passando con disinvoltura da Simone de Beauvoir a Sex and the City”.
(SB): “Non mi è sfuggita l’‘impennata nichilista’ verso la fine del saggio. Sotto l’egida di Andy Warhol, parlando al plurale, fai notare che ‘il nulla siamo noi ... anche noi riversiamo le nostre speranze di felicità nelle cose ...’ (p. 105). Ma quanto è sincero questo tuo passaggio? Voglio dire, un conto è il nichilismo come esito di una riflessione filosofica ricca e profonda, nutrita di classici, e magari impastato a un vissuto doloroso (penso a Leopardi, a Nietzsche). Ma non è eccessivo, e un filino qualunquista, scomodare una formula come ‘il nulla siamo noi’ come ‘cappello’ all’analisi di una blogger che per costituzione vive dell’effimero e nell’effimero? Forse, anche se tutti siamo nulla, qualcuno è più nulla di altri, o comincia ad esserlo ancor prima del proprio annullamento fisico ...”. (LE): “Rispondo citando una delle ultime apparizioni televisive di Andy Warhol al Saturday Night Live nel 1981. Un momento straordinario di ‘arte televisiva’. Andy è ripreso di fronte allo specchio della sala trucco e, mentre si mette il cerone, parla del significato del morire, del diventare nulla. Dopo pochi secondi, l’immagine si sgrana e il volto di Andy scompare lentamente nella trama di pixel, fino a diventare irriconoscibile. Sparire è dunque morire: una sparizione mediale come contrappunto ai 15 minuti di celebrità. I media non danno solo visibilità, ma offrono e tolgono riconoscimento. La performance di Andy Warhol non si rivolge solo a chi ‘vive dell’effimero e nell’effimero’, ma è rivolta a tutti noi, protagonisti e spettatori della società dello spettacolo”.
Note
[1] Per approfondire: https://popsophia.com/
[2] Lo scambio è avvenuto via e-mail tra il 20 febbraio e il 16 marzo 2021. La presente versione, adattata, è stata approvata da Lucrezia Ercoli, che ringrazio per la disponibilità. Chi fosse interessato alle sue attività e pubblicazioni può seguire il blog https://lucreziaercoli.com/