Pensiero memizzato, pensiero impoverito?
Conversazione con il professor Gianpietro Mazzoleni
Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Gianpietro Mazzoleni ha insegnato Sociologia della Comunicazione e Comunicazione Politica all’Università degli Studi di Milano dal 2002 al 2016. Tra innumerevoli credenziali e successi che il professore vanta, basti ricordare che dal 2014 al 2019 ha presieduto l’Associazione Italiana di Comunicazione Politica e che nel 2020 gli è stato conferito, dall’International Communication Association (ICA) e dall’American Political Science Association (APSA), il prestigioso David Swanson Award, come riconoscimento per i suoi studi innovativi e il suo impegno didattico ed editoriale [1].
Ho raggiunto il professor Mazzoleni per approfondire alcuni temi trattati nei suoi libri più recenti [2]; in particolare, la mescolanza tra politica e televisione, l’impatto dell’intrattenimento televisivo sull’impegno politico, le dinamiche dei social come aggregatori di cittadini con interessi simili, e l’uso dei meme nella comunicazione politica.
Stefano Bigliardi (SB): “La comunicazione politica in Italia ha una lunga storia, che si articola in diverse fasi marcate da date salienti. Ovviamente la televisione ha avuto una funzione fondamentale. Quand’è che i partiti politici italiani si sono resi conto del potere della TV? Come le si sono avvicinati?”.
Gianpietro Mazzoleni (GM): “Due sono le date da ricordare. La prima è il 1954: il segnale televisivo viene diffuso in Italia per la prima volta, e quindi nasce la televisione. Per i primi anni la televisione è considerata uno strumento educativo, una macchina di produzione culturale, e tra le altre cose contribuisce a unificare l’Italia dal punto di vista linguistico. I politici in Italia non si rendono conto immediatamente e uniformemente della televisione; non è che non si accorgano della sua esistenza, ma un po’ la temono e, non conoscendola bene, la lasciano in mano ai tecnici. Un uomo politico un po’ più furbo degli altri, Amintore Fanfani [1908-1999; eletto nel 1954 segretario della Democrazia Cristiana, ndr], ebbe l’accortezza di affidare la televisione a qualcuno che oggi pochi ricordano: Filiberto Guala [1907-2000, ndr]. Guala nel 1954 fu nominato amministratore delegato della RAI. Aveva una visione cattolica e intransigente, e non a caso in seguito, nel 1960, si sarebbe fatto frate trappista, ma sotto la sua direzione entrarono in RAI intellettuali di ogni orientamento che in seguito segneranno il cammino dell’emittente pubblica. La seconda data importante è il 1960: la politica per la prima volta entra ufficialmente nella televisione. In occasione delle elezioni amministrative vengono create le tribune politiche. Così, non solo si parla di politica in televisione, il che veniva già fatto nei telegiornali, peraltro poco diffusi, ma si vedono per la prima volta i politici, interrogati dai giornalisti. Un aneddoto famoso, è quello del ministro dell’interno Mario Scelba [1901-1991, ndr] che, in evidente imbarazzo davanti alla telecamera, cerca di spiegare come funzionano le votazioni amministrative di quell’anno. I politici non erano preparati all’uso professionale o comunque intelligente della televisione. Da quel momento in poi tuttavia impareranno in fretta il mestiere”.
(SB): “La riluttanza del politici a servirsi della televisione era dovuta a incompetenza oppure c’erano dei motivi di ordine ideologico?”.
(GM): “C’erano entrambe le cose. Nel caso dei democristiani si può parlare di incompetenza. Riconoscevano che nei ‘nuovi mezzi di comunicazione sociale’, come venivano chiamati a quei tempi, c’erano degli strumenti interessanti per fare politica, ma erano inizialmente impreparati. Nel caso del PCI invece si può parlare di avversione ideologica. Il Partito Comunista aveva già i suoi canali ‘educativi’, come le Case della Cultura, il giornale L’Unità, la rivista Rinascita. Questa avversione era fondata su una visione della cultura popolare come contrapposta alla cultura alta, come finalizzata all’evasione, in sostanza al rimbambimento del popolo. Era una percezione influenzata dalle idee della Scuola di Francoforte. Di questa riluttanza il PCI ebbe a pentirsene in seguito, quando si rese conto di avere lasciato alla DC un vantaggio di dieci-quindici anni nella gestione della televisione pubblica”.
(SB): “All’inizio degli anni Novanta, un tycoon televisivo, Silvio Berlusconi, scende in politica, e con successo. Oltre che la sua ricchezza, sfrutta anche il tipo di cultura popolare che ha seminato in precedenza con i suoi canali di intrattenimento?”.
(GM): “Qui occorre ricordare preliminarmente un’altra data saliente: il 1975, con la riforma della RAI, che libera anche le televisioni private, anche se non immediatamente. Tra il 1975 e il 1980 nascono i network televisivi privati, appartenenti a imprenditori o editori indipendenti, che successivamente, dopo aver fondato Canale 5, Berlusconi fagociterà. Certamente su tutto questo capitalizzerà politicamente più tardi: se poi avesse intenzione di entrare in politica fin dall’inizio è più dubbio. Certamente lui capì per primo, più di altri, l’enorme potenziale commerciale della cultura popolare, sfruttandola e innovandola, creando nuovi modelli di consumo. Forse all’inizio degli anni Ottanta, Berlusconi non vedeva tutto questo, ma di certo all’inizio degli anni Novanta si accorse che le condizioni per scendere in politica c’erano.
Secondo la lettura del filosofo Norberto Bobbio [1909-2004, ndr] la televisione di Berlusconi per quindici anni avrebbe diffuso una cultura consumistica e edonistica, che avrebbe in seguito favorito il successo politico dell’imprenditore. La posizione di Bobbio rientra tra quelle più note, formulate dal politologo Robert Putnam [nato nel 1940, ndr], del disimpegno civico indotto dal mercato, dai consumi, dal divertimento. Secondo Putnam la cultura commerciale ed edonistica avrebbe indotto ad un atteggiamento anti-ideologico e anti-impegno civico: in altre parole, il tempo trascorso davanti alla televisione sarebbe stato tutto tempo sottratto alla socialità. Una simile convinzione fu nutrita fin dall’inizio da parte della sinistra di casa nostra nei confronti dei canali privati, ingenerando quindi grande diffidenza nei confronti di Berlusconi, che spiazzava le ideologie che stavano dietro all’attivismo politico della sinistra”.
(SB): “Le pongo un paio di domande di tipo quasi filosofico. Berlusconi, la storia e la cultura, le ha fatte, oppure è stato ‘hegelianamente’ usato dallo spirito dei tempi? Ovvero, se non ci fosse stato lui, a livello italiano, ci sarebbe stato qualcun altro a fare quel che ha fatto? Inoltre, si può dire che Berlusconi abbia rappresentato e promosso un modello di uomo politico che è stato adottato da tutti gli altri, e quindi sostenere che, al di là delle sue tante promesse politiche non realizzate, Berlusconi in un certo senso è un trionfatore?”.
(GM): “Cercherò di rispondere sinteticamente. Premettiamo che discutere su Berlusconi è un esercizio difficile perché è un soggetto storico ma anche attuale: tuttora il suo partito esiste, anche se lontano dai fasti dei decenni passati, e tuttora Berlusconi interviene nella politica, partecipa, si pronuncia.
Ora, Berlusconi usato dalla storia o autore della storia? Non sono incline ad adottare una lettura deterministica, come se ci fosse un potere esterno alla storia che condiziona le attività umane. Realisticamente, si può dire che in Italia ad un certo punto si è creato un clima favorevole alla sua esperienza; che poi tale clima l’abbia creato lui, in parte è vero. Con Mani Pulite e il crollo della cosiddetta ‘prima repubblica’ si è venuto a creare un vuoto di offerta politica in cui Berlusconi, da uomo di marketing, ha saputo inserirsi.
Insomma, la storia ha creato le condizioni, ma Berlusconi è stato molto bravo a coglierle per piazzare un suo prodotto, e questo gli è riconosciuto anche dagli avversari più feroci. La ‘gioiosa macchina da guerra’, celebre espressione con cui il segretario del PCI Achille Occhetto descrisse il proprio partito nel 1994, nel primo confronto televisivo con Berlusconi, era, purtroppo per lui, una macchina da guerra con le ruote sgonfie. Il crollo del Muro di Berlino era avvenuto da qualche anno.
Che cosa ha significato Berlusconi per la politica italiana? Ha significato molto, occorre riconoscerlo. Ha cambiato i parametri, le piattaforme e il linguaggio della politica, imponendo una sua forma di marketing politico. Per inciso, per noi studiosi di comunicazione si potrebbe dire, ironicamente, che Berlusconi è stato una miniera d’oro, viste le analisi e le ricerche che ha ispirato. Ora, quel marketing non l’ha inventato lui, lo hanno inventato gli americani, e lui lo ha messo per primo in pratica in Italia. Comunque è presto per fare un bilancio del berlusconismo: non resta che usare l’espressione manzoniana ‘ai posteri l’ardua sentenza’ visto che appunto Berlusconi è ancora fra di noi e, seppure non come un tempo, e seppure con alti e bassi, condiziona tuttora la politica e ne sentiremo parlare ancora, specie quando arriverà il momento di eleggere il Presidente della Repubblica”.
(SB): “Professore, mi sta fornendo una versione ‘mazzoleniana’ della ‘profezia di Pertini’?”.
(GM): “No, i guai giudiziari di Berlusconi sono troppo grossi. Ma è anche vero che per diventare Presidente della Repubblica non è necessario essere immacolati. Quindi ne sentiremo almeno parlare come possibile candidato”.
(SB): “Torniamo alla RAI. In tutto questo che cosa le è successo? Se dovesse sbarcare il famoso ‘marziano a Roma’ vedrebbe che oggi RAI e Mediaset non sono troppo diverse, ma sappiamo che non è sempre stato così. Come ci si è arrivati?”.
(GM): “Negli anni dei governi di Berlusconi, fino all’arrivo di SKY e poi de La7 e del digitale terrestre, ci fu un duopolio tra RAI e Mediaset. La RAI, che è stata, e forse è ancora, la più grande macchina di produzione culturale italiana, era stata minacciata dall’arrivo della televisione commerciale, ma si attrezzò per rispondere con le stesse armi, cioè convertendosi alla logica commerciale del successo in termini di ascolti. Purtroppo il famoso ideale della BBC, ‘informare divertendo’, è stato annacquato dalla RAI preferendovi un ‘vendere divertendo,’ certamente per reggere la feroce concorrenza della televisione privata, e dunque per ‘stare sul mercato’, come hanno detto tutti i suoi presidenti, di destra e di sinistra, che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Il modello BBC non è completamente scomparso, ma di certo non è quello dominante all’interno della televisione di Stato. E la RAI peraltro riflette anche gli equilibri mutevolissimi della politica italiana, che creano instabilità”.
(SB): “Ma appunto, essendo la RAI di Stato, quanto è stata determinante la fame finanziaria dei suoi dirigenti (e della politica) e quanto invece la sua trasformazione in senso commerciale è stata il frutto di uno stato di necessità? In fin dei conti, se una televisione è di Stato, si può benissimo concepire che venga mantenuta, a fondo perduto, come spazio per la produzione di programmi non direttamente agganciati alle dinamiche del mercato e della concorrenza; e alcuni peraltro potrebbero essere spazi anche politicizzati, senza essere commerciali”.
(GM): “Questa è una buona e vecchia domanda, che molti, tra cui dei politici, si sono posti, specie negli ultimi quindici anni, ma a cui non è mai stata data una risposta. Le alternative ci sarebbero, per esempio trasformare la RAI in una fondazione (come la BBC). Ma quello che manca è la volontà politica. I politici non vogliono perdere il loro giocattolo e strumento di potere.
(SB): “Veniamo a una delle idee che ho incontrato leggendo i suoi libri [vedere box] e che trovo particolarmente interessanti ma anche problematiche. I reality show e il televoto: caricatura della partecipazione democratica, o preparazione alla democrazia? Quando degli studiosi hanno sostenuto che il televoto allenasse al voto politico era solo una boutade o c’era qualcosa di vero?”.
(GM): “Si tratta di un’idea che si trova negli studi di colleghi britannici e che ritengo abbastanza convincente. Questi studiosi, esaminando la percezione e l’impatto di alcune forme di cultura popolare televisiva, come i giochi a premi, forse un po’ ottimisticamente, li hanno ritenuti esercizi propedeutici alla partecipazione politica. Sostenevano che il televoto, ossia telefonare e esprimere una preferenza in una gara televisiva, trasmettesse agli spettatori votanti l’idea di un effetto, di un impatto della propria azione, spingendoli quindi a fare altrettanto in circostanze analoghe, ossia nelle elezioni politiche. Il senso di efficacia negli studi politologici è ritenuto importante, è quello che induce le persone ad andare a votare e apparentemente questo senso si forma e si consolida anche attraverso questi esercizi ludici, che pertanto non sono cose spregevoli (politicamente parlando). Rimane il problema della qualità della gara, ovvero chi e cosa è in gioco. Ci sono dunque molti altri fattori che determinano il comportamento di voto.
C’è da notare che le campagne elettorali moderne, con la crescente polarizzazione degli elettorati, alimentano il senso di efficacia perché sono molto combattute. Pensiamo per esempio alle ultime presidenziali americane. Non credo che le persone abbiano partecipato come hanno partecipato a causa dei programmi televisivi con il televoto, ma perché hanno avuto una percezione del confronto come di una contesa all’ultimo sangue, in cui anche il proprio voto avrebbe determinato il risultato”.
(SB): “Secondo alcune letture lo spettatore non sarebbe narcotizzato come pensavano alcuni molto diffidenti e critici rispetto alla TV, ma da consumatore di infotainment e politainment può anche esercitare una funzione monitorante sulla politica. Se accade, come accade?”.
(GM): “Il concetto di ‘cittadino monitorante’ è stato elaborato da un sociologo americano, Michael Schudson, ed è effettivamente interessante. Lui invita ad immaginare i cittadini come se fossero un gruppo di mamme intorno a una piscina in cui giocano i loro bambini. Che cosa fanno le mamme? Non stanno certo sedute a fissare i bambini. Stanno lì intorno a bere qualcosa, a chiacchierare. Ma se un bambino all’improvviso è in pericolo e urla, le mamme lasciano perdere tutto quello che stanno facendo e si buttano in piscina per salvarlo. Il cittadino, oggi, sarebbe un po’ come quelle mamme. Non gliene importa granché della politica, ma se succede qualcosa che tocca i suoi interessi, le sue tasche, etc. ecco che si informa e si attiva quanto basta per intervenire.
Lo ritengo un modello interessante ma non applicabile dappertutto. È vero che i cittadini risultano spesso vigili e attivi, ma non si può non riconoscere che ci sono larghe fette di pubblico che sono narcotizzate senza rendersi conto di esserlo. Oggi come oggi c’è una disinformazione galoppante, che peraltro non è un fenomeno nuovo, anche se un tempo c’era un giornalismo che riusciva a opporvisi. Attualmente, con le piattaforme social, il potere di controllo da parte del giornalismo è saltato, la gente crede a quello che legge sui social senza filtro critico, cosa che peraltro i politici sanno e che alcuni sfruttano per narcotizzare la cittadinanza”.
(SB): “Effettivamente il paragone con le mamme a bordo piscina è suggestivo, però può anche essere fuorviante. Certo, è un’immagine che contribuisce a spezzare un po’ l’idea per cui un cittadino o è un rimbambito fruitore di programmi TV o partecipa alla politica. Ma nella partecipazione politica contano non solo l’‘attivazione’ ma anche la qualità dell’azione e le conseguenze a lungo termine. L’immagine del salvataggio in piscina pone l’accento sull’azione immediata, sull’intervento. Il voto è l’equivalente del tuffo in piscina. Ma poi un politico di quel voto si serve, sta al potere, fa delle leggi i cui effetti si sentono per anni o decenni, ben oltre il momento del tuffo. Una mamma che si butta in acqua ha una reazione emotiva. Per essere un buon cittadino serve qualcosa di più …”.
(GM): “Certo, tra l’altro, se vogliamo elaborare la metafora, allora una mamma potrebbe buttarsi in piscina e poi annegare anche lei perché non è capace di nuotare. Diciamo che rispetto all’istinto, ai sentimenti ‘di pancia’, le ‘istanze emotive’ dei cittadini, i partiti hanno tradizionalmente svolto una funzione moderatrice. Questo, almeno, nel vecchio modello del dopoguerra. Il problema è che i partiti possono anche non esistere, come negli Stati Uniti, dove un leader come Trump finisce per rappresentare l’elettorato anche emotivamente e fisicamente, e poi appunto, rimane al potere per un certo tempo con tutto quel che ne consegue”.
(SB): “La trasformazione in senso pop della politica italiana sicuramente risente delle tendenze globali. Ci sono però delle caratteristiche che l’Italia esporta?”.
(GM): Non ne vedo di particolari in questo campo. Non abbiamo una grande influenza, siamo noi che seguiamo le mode e che, specie in fatto di reality show, importiamo i format comprati dalle multinazionali dello spettacolo. Anche la produzione nostrana di politica pop non si differenzia granché da quella di altri Paesi. In Italia si può dire, però, che c’è un ampio spettro, che va dalla politica pop educativa, ‘alta’, con nobili fini, per esempio la musica impegnata, come nel caso delle canzoni, o dei film di denuncia; all’altro estremo c’è la politica trash”.
(SB): “Usando delle categorie non etiche, ma di efficacia, in questo oceano di politica pop, chi sta navigando meglio, e perché?”.
(GM): “Per un po’ è stato Beppe Grillo, con il suo modo scanzonato e irriverente, il famoso ‘vaffa …’. Anche Matteo Salvini, prima di diventare ministro, e anche durante i mesi del suo servizio, c’è riuscito abbastanza, specie grazie all’aiuto di quella squadra di esperti di comunicazione social noti come ‘la bestia’, che lo hanno sostenuto nel suo politainment (che si ha quando un politico fa in modo che i media lo coprano). Ma questo in fondo era stato anticipato da Umberto Bossi molti anni prima, con le sue iniziative teatrali come la traslazione delle acque del Po dalle sorgenti a Venezia. Teatro dell’assurdo, ma divertente, e i media ci andavano a nozze. Oggi come oggi non vedo leader che spicchino come leader pop”.
(SB): “In fondo anche per Salvini non è che un certo modus operandi si sia rivelato efficace nel lungo periodo. Ma perché? Perché non ha saputo mantenere il giusto ritmo, la giusta misura, o perché comunque quel tipo di comunicazione, indipendentemente da chi la fa, ingenera saturazione e in fondo gli elettori vogliono vedere il loro beniamino alla prova dei fatti, non solo alla prova dei selfie?”.
(GM): “Penso che l’interpretazione corretta sia quella della saturazione. È la vecchia storia del ragazzino che gridava ‘al lupo, al lupo!’. Salvini interviene continuamente, dice tutto su tutto. In ogni caso, stiamo attenti a descrivere quello di Salvini come un fallimento, visto che il suo partito è ancora il primo nei sondaggi. Va anche detto che il suo stesso successo non può essere spiegato solo con il suo essere pop. Se convince gli italiani arrivando al loro cuore è in tanti modi e per tante ragioni”.
(SB): “Tra questi modi, tra gli elementi del linguaggio di Salvini, ce ne sono di spiccatamente legati alla religione. Ricordiamo il suo riferimento alla Madonnina di Milano, o il suo dichiarare in TV che dice il rosario ogni sera. Ma anche Giorgia Meloni ha astutamente sottolineato, in piazza, di essere cristiana (non sfugge la malizia di usare un termine più inclusivo rispetto a ‘cattolica’, il che mi sembra anche rivelatore di come quella ‘effusione del cuore’ della Meloni fosse il risultato di una tecnica oratoria raffinata se non proprio una dichiarazione costruita a tavolino). Quanto sono importanti questi elementi?”.
(GM): “Premettiamo che la religione è sempre stata usata dalla politica e si è sempre anche lasciata usare. Ma oggi come oggi nazionalismo e populismo hanno trovato nella religione cristiana un elemento importante di identità culturale nazional-popolare, che aiuta il discorso del ‘noi contro loro’, per esempio nella retorica dell’invasione. I vertici della chiesa, papa compreso, sono contrari a questo modo di usare la religione, e lo è anche l’episcopato italiano, pur non essendo molto esplicito nella condanna. L’Arcivescovo di Milano si pronunciò contro il riferimento di Salvini al rosario in Piazza Duomo. Si noti anche che esistono frange della cattolicità, quelle del tipo Radio Maria, per intenderci, a cui questo uso politico della religione non dispiace affatto. Cose simili comunque succedono anche in altre parti d’Europa, per esempio in Polonia e in Ungheria.
(SB): “I cittadini si aggregano sui social media, e attraverso i social media, che però sono piattaforme guidate dagli algoritmi, elemento determinante di queste dinamiche di ‘coagulazione’ sociale: sono pervasivi, ma poco conosciuti e anche inquietanti. Che cosa sono, allora, gli algoritmi, che cosa sappiamo e che cosa vorremmo sapere?”.
(GM): “Si tratta di programmi informatici congegnati in modo tale da governare le dinamiche di uso degli utenti dei social (e non solo). Gli utenti vengono profilati, se ne imparano le abitudini, e si offrono risposte ai loro bisogni di informazione e di relazione. Il tutto però all’oscuro degli utenti stessi, e con finalità che non sono per nulla trasparenti. Noi non sappiamo perché vediamo alcune cose su Facebook e non altre, perché siamo messi in contatto con alcuni potenziali amici e non con altri. Non si sa granché. Oggi se l’intelligenza artificiale si coniuga con gli algoritmi la cosa può sfuggire di mano e diventare davvero il Grande Fratello di orwelliana memoria. Senza fare gli apocalittici, motivi di preoccupazione ce ne sono. E gli autori e detentori dei diritti di queste piattaforme social si difendono sostenendo che non si può limitare la libertà. Ci sono diverse visioni su che cosa occorrerebbe fare, è un campo ancora molto dibattuto”.
(SB): “Un’ultima domanda. Ma allora, davvero i meme sono una cosa seria? [Vedere recensione nel box]. I meme sono piccoli, effimeri, causano impressioni momentanee, possono essere efficaci ma non necessariamente sono veritieri ... Io casomai tenderei a ritenere che il pensiero memizzato è un pensiero impoverito …”.
(GM): “Io e la coautrice Roberta Bracciale, grande esperta di meme, siamo inclini a considerare positivamente i meme. Si tratta di nuovi strumenti, che sono gratuiti e alla portata di un uso creativo e intelligente da parte di tutti, compresa la gente comune che non ha accesso ai grandi media. Sono usati all’interno dei social per far circolare idee, anche di opposizione. Certo, ci sono i meme cattivi, ma ci sono anche quelli buoni, che aiutano a esprimere un’opinione, a mobilitare le coscienze. Anche in questo caso attenzione a demonizzare questa forma pop di comunicazione politica”.
(SB): “Beh, da consumatore di meme, non posso non rilevare che occupano la coscienza ma solo per un istante, quindi possono essere espressione di un pensiero frammentario e frammentato; inoltre sono caratterizzati dall’umorismo, che è un tratto essenziale dell’essere umano ma che, attenzione, può anche essere sleale, basato su una caricatura che è per definizione una deformazione …”.
(GM): “Non c’è dubbio. Sono frammentati e frammentari, ma sono meglio di niente. Perché oggi come oggi, in una società così polverizzata, siamo di fronte alla quasi impossibilità di azioni offline che abbiano un senso e un impatto. Certo, ci sono ancora manifestazioni e proteste di piazza. Ma i meme danno la possibilità a chi non può uscire di casa o che è isolato, di partecipare attraverso i social, sul computer, sullo smartphone. Certo non è la stessa partecipazione di decenni fa, quando si apparteneva ai grandi partiti. Sia chiaro che il meme è uno degli strumenti, e il più facile, e non sto suggerendo che ci si debba limitare a quello. Non lo mitizzo. Ma visto che c’è, che può essere impiegato, che può rendere un messaggio virale, studiamolo e utilizziamolo”.
Note
[1] Per sapere di più sul profilo e le attività di Gianpietro Mazzoleni: https://www.gpmazzoleni.it/
[2] L’intervista si è svolta il 6 aprile 2021. La presente trascrizione, adattata, è stata approvata dal professore, che la Redazione ringrazia sentitamente per la disponibilità e la pazienza. Un ringraziamento va anche a Matteo Mazzoleni per l’assistenza.