Il nemico in casa: Monaldo vs Giacomo Leopardi
Giuseppe Spanu Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Il 7 gennaio 1832 furono pubblicati anonimi, siglati semplicemente 1150, dallo stampatore Nobili di Pesaro i Dialoghetti sulle Materie correnti nell’anno 1831. L’operetta ebbe un successo editoriale straordinario, con ben sei edizioni [1], apprezzatissima negli ambienti cattolici e reazionari. Presto si diffuse la voce che l’autore fosse Giacomo Leopardi, cosa che causò un grande dispiacere al poeta marchigiano. In effetti i Dialoghetti erano opera di un Leopardi, ma non di Giacomo bensì di suo padre Monaldo. La sigla 1150 espressa in lettere latine è infatti MCL, ossia le iniziali di Monaldo Conte Leopardi [2]. Ma cosa contenevano di così orribile da addolorare l’autore dell’Infinito? Suo padre con uno stile brioso vi aveva espresso in quattro dialoghi i suoi pensieri sul Congresso di Vienna, l’insurrezione della Grecia contro gli ottomani e la rivolta di Parigi del 1830 [3]. Vi si potevano leggere frasi come:
“L’autorità dei re viene solo da Dio; il re deve curare tutto il bene del popolo e il popolo deve obbedire a tutti i comandi del re” [4]; “Il Cristianesimo comanda la fedeltà e l’ubbidienza, condannando sempre la rivolta, e l’Evangelo de’ Cristiani vuole che si renda a Cesare quello che è di Cesare. Il Cesare dei Greci è il Gran-Turco, e coloro ribellandosi al proprio principe hanno trasgredita la Legge Cristiana” [5]; che scandalizzarono il pubblico liberale e molti estimatori del poeta pensarono che Leopardi, notoriamente ateo, fosse impazzito o si fosse convertito in un baciapile. Per Giacomo fu un duro colpo, tanto che in una lettera a Giuseppe Melchiorri definì il volume del padre: infame, infamissimo, scelleratissimo libro [6]. Lo scrittore delle Operette fu costretto a smentire la paternità dei Dialoghetti sulla più prestigiosa rivista culturale d’Italia, l’Antologia di Vieusseux [7] e sul Diario di Roma [8].
Ma davvero Monaldo fu un uomo reazionario, oscurantista e irremovibile? La realtà era in verità più complessa: Monaldo fu un personaggio pieno di contraddizioni. Nato a Recanati il 16 agosto 1776, dopo la morte prematura del padre fu educato dal gesuita messicano Giuseppe Torres. Divenuto maggiorenne, si rivelò un pessimo amministratore del suo patrimonio, tanto che nel 1803 chiese di essere interdetto a favore della moglie Adelaide Antici (1778-1857) [9]. Tuttavia si dimostrò un ottimo funzionario civile, come reggente per l’Annona nel 1800-1801 e come Gonfaloniere di Recanati negli anni 1816-1819 e 1823-1826: fece costruire nuove strade, installò l’illuminazione notturna e nel 1817, in seguito a un’epidemia di tifo petecchiale, escogitò dei lavori pubblici per sostentare la popolazione. Monaldo introdusse per primo la vaccinazione contro il vaiolo e la sperimentò inizialmente sui piccoli Giacomo e Paolina, per poi renderla obbligatoria in tutto il territorio marchigiano. Egli si prodigò anche per liberare alcuni pescatori recanatesi catturati dai pirati e intraprese la coltivazione della patata per migliorare la dieta della popolazione locale [10]. Monaldo fu anche un accanito bibliomane e col tempo costituì una gigantesca biblioteca per sé e per i suoi figli, dove Giacomo poteva studiare anche libri proibiti dall’Indice, acquistati con dispensa pontificia, tra cui una delle prime edizioni dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert [11].
L’amore di Monaldo per i suoi figli fu così grande da supplire alla freddezza di Adelaide come madre, come è evidente in una lettera a Giacomo:«Se nulla vi occorre, tanto meglio. Ma se vi bisogna denaro per il viaggio, o per pagare qualche debituccio, o comunque, ditelo all’orecchio al padre e all’amico vostro. Se niente volete, scrivetemi come se io non vi avessi scritto di ciò, perché le vostre lettere si leggono in famiglia; se poi volete, ditemi liberamente quanto, e dirigete la lettera al signor Giorgio Felici, Recanati. Mi avete inteso» [12]. Sappiamo che dopo la morte del suo Muccio (come affettuosamente chiamava Giacomo) [13], Monaldo non tollerava che se ne parlasse in sua presenza o che ci fossero libri con il suo nome, per il tremendo dolore che gli causava [14]. Eppure questo padre così tenero cercò in ogni modo di trattenere Giacomo nella piccola Recanati, che odiava profondamente quel paese di frati [15], quella vilissima zolla [16], mentre per il genitore era la patria più amata [17]. Inoltre dopo la pubblicazione dei Dialoghetti Monaldo divenne uno degli alfieri del movimento reazionario insieme al Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo (1768-1838), a Clemente Solaro della Margarita (1792-1869) e a Cesare D’Azeglio (1763-1830). Insoddisfatto dalla battaglia culturale dei giornali cattolici, fondò persino una sua rivista, La Voce della Ragione, con l’aiuto della figlia Paolina, per difendere i principii del tradizionalismo [18].
Tra le tante opere di quel periodo, mentre la fama del figlio si diffondeva nella Penisola, ci fu Il viaggio di Pulcinella (1832), in cui immagina che il Dottore e Pulcinella (che rappresenta l’uomo del popolo) decidono di scappare dall’Italia per andare a vivere in Francia, l’unico Paese dotato di costituzione (che nel dialogo Pulcinella storpia continuamente in costipazione [19]). Il Dottore e Pulcinella giunti nel Paese della Costituzione, rimangono delusi dai vari colloqui con doganieri, professori etc. nel loro cammino e pensano di tornare indietro. Tuttavia l’Esperienza apparirà davanti a loro e gli chiederà di portare una lettera ai vari sovrani europei. Il contenuto di questa lettera diverrà celebre per alcuni passaggi come:
“Il mondo è pieno di libretti, giornali, cartacce, che diffondono la pestilenza; e voi FATELO EMPIRE DI SCRITTI SANI, i quali siano un antidoto alla corruzione delle genti. Adoperate le armi dei vostri nemici: se i ribelli fanno ridere a spese della rivoluzione, e se dalla propaganda della cabala il veleno si vende a buon mercato, il denaro della sovranità faccia somministrare e diffondere il contravveleno gratuitamente” [20]; inoltre: “ci vuole una gran massa di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla fede altrui, e lasci che il mondo sia guidato coi lumi degli altri senza pretendere di guidarlo coi lumi proprii”; “Perciò invece di favorire smisuratamente l’istruzione e la civiltà, dovete con prudenza imporle qualche confine. Lasciate i libri e gli studii alle classi distinte, e a qualche ingegno straordinario che si fa strada a traverso dell’oscurità del suo grado, ma procurate che il calzolaro si contenti della lesina, e il rustico del badile senza andarsi a guastare il cuore e la testa alla scuola dell’alfabeto” [21]. Queste e altre frasi scandalizzarono molti liberali, moderati e democratici e possiamo immaginare cosa provasse Giacomo quando le persone citavano queste e altre opinioni del padre. Ma il capolavoro del pensiero di Monaldo fu il famigerato Catechismo filosofico (1832), che fu persino adottato come libro di testo nelle scuole del Regno delle Due Sicilie nel 1837.
Nel suo Catechismo Monaldo, con uno stile più pacato e meno vivace degli altri libelli, vi affermava che:
“D. È vero che tutti gli uomini nascono nella libertà?
- Non è vero, e questa bugia della libertà è un altro inganno, di cui si servono i filosofi moderni per sedurre i popoli e operare lo sconvolgimento del mondo” [22].
“I filosofi liberali, almeno quelli di oggidì, conoscono benissimo che l’uguaglianza è una chimera, ma se ne servono per adulare e suscitare le passioni del popolo”.
“D. Quali sono i diritti dell’uomo?
- Voi prendete errore nei termini, perché l’uomo non ha nessun diritto nel senso dei filosofi liberali” [23].
“D. Considerando le cose in astratto, qual è il migliore di tutti i governi?
- Il governo monarchico ereditario, cioè quello in cui il potere sovrano risiede nel solo principe, e da lui passa ai suoi discendenti” [24].
“D. Perché credete voi che il troppo incivilimento del popolo sia contrario al buono stato della civiltà?
- Perché un popolo eccessivamente civilizzato non può supplire a tutti i bisogni della società, e perché dove soprabbonda l’incivilimento del popolo devono soprabbondare gli errori, la insubordinazione e la corruzione del popolo” [25].
“ [...] è d’uopo ravvisare che l’indipendenza dell’Italia immaginata dalla filosofia e desiderata da tanti sconsiderati Italiani, non è necessaria al buono stato della Italia, ed è solamente una parola cabalistica proferita dai furbi e dai perfidi per mettere sottosopra l’Italia con tutti gli Italiani” [26]. Ben diversamente la pensava Giacomo nello Zibaldone: “è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico […] fu certamente il migliore di tutti; il più conveniente all’uomo, il più fruttuoso alla vita, il più felice” [27]. Con la chiusura della sua rivista nel 1835, Monaldo si ritirerà dalla vita politica e si dedicherà alla ricerca storica e alla numismatica. Monaldo fu per Giacomo un padre premuroso, dolce, ma fu anche il suo peggior nemico in tutto ciò in cui credeva il Poeta, la sua nemesi cattolica, aristocratica, castale e reazionaria. Eppure nel loro rapporto non ci fu mai odio, ma amore e un’immensa incomprensione degli ideali dell’uno e dell’altro; i due non si capirono mai, non riuscirono mai a trovare un’intesa perlomeno su alcuni punti, tale era la distanza delle loro visioni del mondo, fino alla morte prematura di Giacomo nel 1837. Monaldo si spense serenamente con i conforti religiosi nel 1847.
Note
[1] Lidia Zawada, “Anche da una finestretta piccola...”, in Catechismo filosofico e catechismo sulle rivoluzioni, Fede&Cultura, Verona 2006, p. 49.
[2] Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi, Rocco Carabba Editrice, Lanciano 2016, p. 48.
[3] Lidia Zawada, op. cit., p. 48.
[4] Pasquale Tuscano, op. cit., p. 169.
[5] Ivi, pp. 176-177.
[6] Ivi, p. 165.
[7] Ivi, op. cit., p. 164.
[8] Lidia Zawada, op. cit., p. 50.
[9] Ivi, op. cit., p. 36.
[10] Ivi, op. cit., pp. 33-34.
[11] Ivi, op. cit., p. 39.
[12] Pasquale Tuscano, op. cit., p. 119.
[13] Muccio, Buccio, Mucciaccio erano soprannomi affettuosi con cui veniva chiamato Giacomo Leopardi in famiglia.
[14] Paolina Leopardi, Lettere (1822-1869), Apicelibri, Sesto Fiorentino 2018, p. 378 lettera 19 ottobre 1845
[15] Pasquale Tuscano, op. cit., p. 76.
[16] Ivi, p. 80.
[17] Ivi, p. 88.
[18] Ivi, p. 34.
[19] Monaldo Leopardi, Monaldo e Pulcinella, Fede&Cultura, Verona 2016, p. 22.
[20] Ivi, p. 64.
[21] Ivi, pp. 67.-68
[22] Monaldo Leopardi, Catechismo filosofico e catechismo sulle rivoluzioni, Fede&Cultura, Verona 2006, p. 126.
[23] Ivi, pp. 135-136.
[24] Ivi, op. cit., p. 148.
[25] Ivi, p. 165.
[26] Ivi, pp. 182-183.
[27] Giacomo Leopardi, “Lo stato libero e democratico”, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2016, pp. 82-83.