Vere e false storie

Francesco D’Alpa    Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

A partire da argomentazioni ragionevoli è sempre possibile sostenere conclusioni preconcette, ad esempio contro la libertà di espressione e di stampa. Ne danno un esempio due articoli su L’arte di Falsare le storie [1], e sui Ripari contro le false istorie [2], apparsi su La Civiltà Cattolica nel lontano 1853, ma tuttora validi nello spirito che li impronta.

Essi prendono lo spunto dalla pubblicazione di importanti opere (per non parlare di altre minori alle quali non si vuole accennare) che ad esempio presenterebbero una storia d’Italia o del papato, artatamente falsate rispetto a quanto stimato veritiero dallo scrivente.

Senza entrare sulle specifiche contestazioni, è interessante riportare le argomentazioni addotte. Lo sfondo è quello della instancabile lotta ai principi dell’Illuminismo:

Nei mezzi che l’Illuminismo tenne per corrompere la fede e i costumi dei popoli, v’ha professatamente ed in formole espresse e precise ancor questo, di rivolgere le menti alla LUCE con rifare le storie, le quali non le fossero propizie, o favorevoli. [p. 17].

Le storie risulterebbero falsate per due fondamentali motivi: primo, l’ignoranza, ovvero se chi scrive “non sia informato profondamente dei fatti che deve narrare, se egli non sia giudizioso ad assegnarne le immediate loro ragioni, se infine non sia ragionevole ad ordinare gli uni con le altre nella necessaria loro connessione” [pp. 21-22]; secondo la calunnia, ovvero la “maligna volontà d’affermare il falso per il vero” [p. 23]. Da ciò ne viene che “l’ignoranza nel giudicare l’improbabile per probabile è a lui sprone ad ammettere nel suo libro le più sbombardate fiabe purché avversino la parte ch’egli vuol calunniare” [p. 23].

Si tratterebbe di un’arte antica, ma di facile effetto, di una “congiura permanente contro la verità” ampiamente esercitata sin dagli esordi della Riforma luterana, ed in particolar modo a mezzo della “congiura enciclopedica dello scorso secolo”. Con quale effetto sui lettori è facile comprenderlo. Infatti,

generalmente parlando il più gran numero dei lettori d’una istoria, buona o rea che ella sia, non ascolta quel racconto come farebbe un giudice che ode un testimonio, il quale aspetta d’udire l’altra parte a fine di formare la sentenza del fatto. Esso l’ascolta come la sentenza diffinitiva d’un giudice venerato. Giudice perché già suppone che avanti di porre al pubblico il racconto abbia lo scrittore indagato il come ed il perché, il pro ed il contra d’ogni sua parte. Giudice venerato, perché l’antica riverenza che s’aveva in chi stampasse un libro è così radicata nel cuore del popolo che ad estirparla ancor non bastò l’ignominia e il disordine della moderna stampa. Come volete adunque che egli non faccia a fidanza con lui, e non gli renda ciecamente l’omaggio della sua credenza? [pp. 25-26].

Venendo al caso che inquieta lo scrivente, anche la moltitudine delle “false storie” che al momento circolano in Italia è un “atto deliberato, e voluto per istudio di malvagio intendimento” [p. 18]. Scontata la

naturale morbidezza dei più volgari lettori a prestar fede a qualunque istoria […] il tossico quanto è più occulto e segreto, e quanto più vi è largamente propinato sotto ragione ed apparenza di utile e saporosa medicina, tanto più certa produce la morte [p. 26].

Fra gli esempi di questo veleno vengono citati ad esempio “la favola della magia di papa Silvestro II” e la novella della papessa Giovanna” [pp. 26-27], ma anche l’interpretazione, di parte avversa alla chiesa, delle vicende di Galileo, dell’Inquisizione, della notte di S. Bartolomeo [p. 32].

Alcuni elementi renderebbero particolarmente efficace l’uso di questo mezzo da parte dei nemici della religione: “la grande facilità dell’impresa, il gran danno che può fare, la malagevolezza del ripararvi” [p. 19], ma anche “l’intrepidezza dell’affermazione” e “la sicurezza del racconto” [p. 28].

E d’altronde “non v’è cosa tanto difficile a farsi quanto una buona storia” [p. 19]. A tal fine occorrerebbe infatti rispettare tutte e tre queste condizioni: (a) “recare i fatti con le loro circostanze come attualmente accaddero”, (b) “recare di ciascun fatto la ragione propria e speciale”, (c) “ordinarli insieme e disporli nella loro dipendenza scambievole” [p. 21].

Al contrario, non giovano alla redazione di una buona storia alcuni elementi: (a) “l’animo appassionato verso un qualche partito”, (b) “la mente preoccupata da qualche falso pregiudizio”, (c) “l’immaginazione”, (d) “l’ignoranza nel giudicare” e la “poca critica”, (e) “la piccola penetrazione della mente”, (f) “la poca pratica delle cose del mondo” [pp. 22-23].

Avevamo adunque ragione di asseverare che le istorie scritte a disegno di mentire e di calunniare trovano assai facile credenza nel volgo, e per legittima conseguenza producono appo i lettori un gravissimo danno. Ma fosse almen questo danno riparabile con quella medesima agevolezza colla quale vien esso cagionato! Accade precisamente il contrario, e il faremo qui toccare con mano al nostro lettore [p. 29].

Diagnosticato il male, si passa ad esporne i possibili rimedi, purtroppo piuttosto malagevoli di fronte ad una male affrontabile controparte, anche perché

sventuratamente il solo confutare una storia non giova allo scampo delle sedotte moltitudini, e altri doveri toccano a chi vuol rettamente e con pro cercarne il bene [p. 150].

Una controparte disprezzabile, e quanto mai eterogenea:

Ci sono adunque noti i sensi che attingono a cotali libercolacci i giovani inesperti nei loro crocchi, i frequentatori delle università nelle loro adunate, lo sciame dei ministri, dei commessi, degli scrivani nei loro scrittoi o nei loro studii; gli artisti e i virtuosi nei caffè; i mediconzoli, gli spezialucci, i procuratori, gli avvocatelli e tutta quella lunga generazione di mediocrissimo ingegno e di mal condotta disciplina, la quale non disonora meno la nobiltà della propria professione coll’ignoranza, di quello che faccia onta alla santità della propria fede colla miscredenza [pp. 150-151].

Per ottenere l’effetto voluto, la confutazione dovrebbe essere in primo luogo sollecita:

Ogni rimedio di sua propria natura ovvero è curativo, ovvero è preservativo; e sebbene la cura che impedisce la venuta del male è le cento volte preferibile alla cura che venuto lo discaccia, nondimeno, quando il male ci è, essa è la sola possibile a mettersi in uso. Questo si avvera delle infermità che infettano i corpi, e dei vizii che deturpano gli animi: questo vale così per gl’individui come per le società; questo ha luogo tanto nei mali interni, quanto negli esterni. Applicando ciò alle perniciose opinioni diffuse per la lettura degli storici menzogneri, la prima attenzione deve essere adunque rivolta a dissiparle dal capo del popolo, e a distruggerle. Ora per cotesto non vale una qualsivoglia confutazione che se ne scriva: egli fa mestieri d’una confutazione sollecita e popolare. Se mancano alla confutazione questi due pregi, sia pur essa evidente, sia erudita, sia dotta; essa sarà perduta per la moltitudine, perché non otterrà il suo intendimento [pp. 151-152]

e non deve dar tempo alle false idee di radicarsi:

L’indole […] del male che producono le istorie perfidamente bugiarde è in ciò riposta: che germinino nell’animo del popolo un errore e vel radichino profondamente, nascondendo l’origine ed il rampollo di quell’errore. Lasciate voi ora un bel tempo senza risposta quello storico mentitore: e poi provatevi coi vostri argomenti rifutativi a dileguar quei lusinghevoli falsi per lui persuasi con iscaltrezza forse maggiore della perfidia. Non dovrete allora più rimettere nella nuda loro verità dei fatti trasformati in tutt’altro da quel che erano: essi sono già dimenticati [p. 153].

In secondo luogo, la confutazione deve essere “volgare e comune”, ovvero deve tener conto delle capacità di chi ascolta:

Il popolo minuto non giudica d’ordinario a punta di ben condotto ragionamento; ma lasciasi abbagliare dallo splendore di leggiadre fantasie: non è capace di pesare equamente il valore delle testimonianze che si adducono; ma si affida a chi primo gli si presenti con sembianza amica quasi persona domestica e di piacevolezza fornita e di brio: non conosce indole di tempi, diversità di costumi, potenza di principii; ma giudica da quel che guarda e da quel che ascolta intorno a sé: non istima né abbraccia le parole pel concetto che esse esprimono; ma per lo contrario s’attiene ad un concetto per la forma seducente delle parole che lo ingeriscono e lo persuadono: non è infine tollerante di lunga fatica pel bene che ne può sperare; ma s’appiglia a tutto ciò che gli alleggerisce noia e fatica; abbia pure a portargli nocumento, che a lui non monta. Quindi ne seguita che volentieri leggerà una breve novelletta ove s’incarichi a cagion d’esempio di sordida avarizia, o d’ipocrisia volpigna l’ordine ecclesiastico; e non vorrà saperne di leggere una grave dissertazione nella quale si dimostra ad evidenza la disinteressata generosità dell’ordine clericale nella Chiesa cattolica [pp. 155-156].

In pratica occorrerebbe distinguere fra due categorie di uditori e lettori: (a) “gli spiriti magnanimi e addottrinati [che] sanno scorgere i contrassegni della falsità in una narrazione”, e (b) “gli animi deboli, ineruditi, leggeri [che] siccome non conobbero la falsità dell’asserzione, così non dubitarono dell’autorità del narratore” [pp. 153-154].Ed occorrerebbe evitare, ciascuno con l’autorità che gli compete, che si presti attenzione alle false storie:

Il padre di famiglia nella sua casa, il maestro di scuola nel suo ginnasio, il padron d’officina nella sua stazione, il capo d’offizio nel suo scrittoio, il Podestà nel suo territorio, il Principe nel suo Stato del pari che il parroco nel suo piviere, e il Vescovo nella sua diocesi debbono procurare a ogni costo che quei perfidi seminatori di mali semenze non li trovino giammai sopiti di tal fatta, che possano francamente entrare o nell’aiuola, o nel giardino, o nel campo a spargervi il tristo seme del soffocante loglio, della pungente ortica, della acuta e velenosa zizzania. Essi hanno dal Cielo l’autorità perché dirigano i loro sudditi al bene di cui sono capaci, che non è solo il bene dei loro corpi, ma abbraccia altresì, anzi a più santa ragione benché non sempre così direttamente, il bene delle loro anime. […]  Essi debbono prendere esempio dalle industrie medesime che adoperano i nemici della Chiesa e della società al fine di pervertire i semplici. Qual mezzo lasciano costoro di porre in effetto perché siano i primi ad entrar col veleno nei vergini intelletti degl’innocenti fanciulli, nelle menti semplici ed inesperte del popolo, nelle bollenti e smaniose fantasie dei giovani imberbi, e degli uomini minuti ed ignoranti? Nei libri della puerile istruzione han disseminato le loro menzogne: cominciando dai simbolici e figurati abecedarii, e terminando ai corsi, ai compendii, alle sinopsi, alle istituzioni di storia municipale e nazionale [pp. 157-158].

Contro tutto questo occorrerebbe una ben mirata divulgazione, centrata sulla Storia Sacra e sulle Verità del cattolicesimo, che in particolar modo coinvolga la “gioventù abbandonata” e sensibile alla seduzione della cattiva stampa. Infatti

non sono le astratte teorie, ma sono i dommi incarnati nel fatto quelli che tenacemente impigliano le moltitudini: non sono gli uomini di comun senso ma i parabolani e gli spacciatori di novità quelli che ne affascinano gli animi [p. 153].

Dunque

a parlare fuori di figura, ei bisogna che per ributtare le false istorie indiritte al popolo veggano la luce delle schiette istorie scritte pel popolo: vale a dire brevi di volume, svolte di forme, amene di modi, leggiadre di apparenza, sparse di attici sali e di eleganti grazie, le quali attraggano, invitino, e quasi sforzino i lettori più svogliati e fastidiosi. Chi ebbe dalla natura ingegno a tanto, non lo tenga ozioso se egli ama il bene della sviata moltitudine. Ingentilisca, avvivi, divulghi, e diciam così popolarizzi quelle più dotte confutazioni, le quali per la loro mole e dottrina non arriverebbero altrimenti in mezzo al popolo [pp. 156-157].

Si tratta, a ben vedere, di un ineludibile dovere morale:

Vergogna è dunque pel giovane cattolico l’ignorare i fasti della propria religione, e più che vergogna è danno. Imperciocché una gioventù abbandonata a si rea forma d’istruzione nelle scuole, tenete per fermo che a suo danno troverà chi malamente ne informi le troppo pieghevoli menti, e pre­ sto o tardi apprenderà senza pur saperlo in luogo della verità, che altri le tenne chiusa, la menzogna e la calunnia [p. 160].

Veniamo infine alla terza importante caratteristica della confutazione; quella che ne espone in modo radicale la condotta operativa. Essa deve “prevenire il giudizio”. Dato che è impossibile “tener dietro ad ogni menzogna, ed andarle tutte ad una ad una scoprendo e sbugiardando», occorre adottare una «maniera di difesa la quale valga di per sé sola contro ogni attacco speciale”, prendendo esempio dalla prassi dei tribunali: in pratica, occorre attuare “l’esclusione del testimonio”, ovvero screditare a priori la sua testimonianza, senza timore di venire accusati “d’intolleranza e di esagerazione” [pp. 162-163]. Questa ”esclusione” è doverosa ed inevitabile nel caso dei non cattolici:

se lo scrittore neghi di essere cattolico, o che di fatto non sia; la sua testimonianza contro la Chiesa Cattolica non può accettarsi perché vien da nemico: essa sarà necessariamente passionata [p. 164].

Se poi gli scrittori non cattolici non sono “parziali e setteggianti”, allora certamente sono “ignoranti”. Ma il modus operandi non cambia:

La testimonianza adunque di scrittor non cattolico contra la Chiesa Cattolica debbesi rigettare come evidentemente parziale. Né vale il dire che cogli stessi argomenti si escluderebbe altresì la testimonianza d’uno scrittore cattolico a pro della Chiesa cattolica: come non vale il negare al padrone la legittimità del possesso perché fu negata al ladro: come non vale il torre al suddito fedele godimento dei suoi dritti perché fu tolto al contumace. Il Cattolico assumendo la difesa delle qualità divine della sua Chiesa non difende una fattura sua propria, ma una istituzione divina: per lui non è vi­ zio di parzialità è debito strettissimo di verità. Quindi sorge in lui quel sentimento di nobiltà che lo allontana dalla bassezza della menzogna, della finzione, della esagerazione istessa: quindi quel dettame del dovere che non lascia battergli nel raccontare altra via che la regia della verità e dell’onestà: quindi quella sicurezza della causa, per la quale non teme oscurità né disonore da qualunque vizio, o abuso che confessi in un uomo mortale: quindi quell’affetto generoso alla Chiesa istessa pel quale schiverà di disonorarla con ignobili e calunniose difese: quindi quell’industria dello zelo di piuttosto conciliarsi l’animo dei miscredenti scusandoli, che innasprirli ancor degnamente accusandoli, quando si ha speranza che possa produr vantaggio ai miscredenti, e non recare agl’incauti danno di seduzione [pp. 165-166].

Qui il cerchio si chiude. Di fronte alle difficoltà ed all’incerto esito della confutazione, l’arma risolutiva (per quanto non citata) sembra non poter esser altro che la messa all’Indice.

Note

[1] Matteo Liberatore, L’arte di falsare le istorie. La Civiltà Cattolica, 1 gennaio 1853, serie II, volume V, pp. 15-29.

[2] Matteo Liberatore, Ripari contro le false istorie. La Civiltà Cattolica, 15 gennaio 1853, serie II, volume V, pp. 150-166.