Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, ISBN 978-88-6030-377-6, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, pagine 318, € 22,80 (disponibile anche per e-book).
Recensione di Maria Turchetto Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
È un libro denso di informazioni e suggestioni e corredato da una ricca bibliografia; ne consiglio vivamente la lettura – oltretutto piacevole. Con un po’ di spirito critico, tuttavia, perché non è esente da contraddizioni.
La celeberrima affermazione di McLuhan “il medium è il messaggio”, formulata a proposito dei “media elettrici” (radio e televisione, soprattutto) ma ampiamente generalizzabile, viene interpretata dall’autore nel senso che i mezzi di comunicazione influenzano il nostro modo di pensare – più precisamente, “cambiano il nostro cervello”. Di qui prende avvio una ricostruzione davvero bella della storia di quelle che Carr definisce “tecnologie mentali”, organizzata in modo quasi kantiano: lo sviluppo della cartografia, che ha ridefinito profondamente il nostro modo di percepire e pensare lo spazio; quello degli orologi, che ha cambiato la nostra idea del tempo. Infine, la comunicazione e trasformazione del linguaggio: dall’oralità alla scrittura, dalla scriptura continua all’uso delle parole separate e della punteggiatura, fino alla stampa e alla diffusione dei libri. Ciascuno di questi passaggi ha implicato trasformazioni cruciali del cervello umano, rappresentando a ogni tappa una “liberazione di risorse intellettuali” disponibili per una maggiore e più creativa elaborazione dei contenuti. Il vertice di questo processo sembra essere costituito, per l’autore, dalla lettura silenziosa, solitaria e concentrata dei libri. “Una strana anomalia” dal punto di vista cognitivo, dal momento che “la condizione normale del cervello umano, come quella dei cervelli della maggior parte degli animali, è la distrazione. La nostra predisposizione naturale è spostare lo sguardo, e quindi la nostra attenzione, da un oggetto all’altro, per renderci conto il più possibile di quanto succede intorno a noi”. Leggere diventa un “atto meditativo”, che non implica lo svuotamento della mente ma, al contrario, la riempie: un “eccezionale processo mentale”. Ma ecco i media elettrici, poi elettronici a toglierci concentrazione, a offrirci stimoli continui che distolgono l’attenzione: a ripiombarci nella condizione animale della distrazione. A “renderci stupidi”, come recita il titolo. Devo dire che è curiosa quest’idea di una storia che per millenni procede in progresso – dalle tavolette dei Sumeri al libro stampato – per regredire improvvisamente ai giorni nostri con l’avvento di Internet.
A coloro che sostengono l’utilità di disporre di una potentissima memoria “esternalizzata” come quella fornita dalla rete per liberare risorse cognitive, Carr obbietta che la memoria dei computer non funziona come la memoria umana: la prima è una semplice registrazione di dati, in cui si può fare spazio cancellandone o spostandone altrove una parte; la seconda è un meccanismo biochimico estremamente complesso. Ce lo spiega molto bene nel cap. 3, ricostruendo anche la storia delle ricerche che hanno portato alle attuali conoscenze dei processi cerebrali implicati nell’apprendimento e nella memorizzazione. Capitolo interessante davvero, ottima divulgazione scientifica, ma … non c’entra. Voglio dire che Carr non chiarisce perché i processi di formazione delle sinapsi e degli assoni, di elaborazione e trasferimento dall’ippocampo alla corteccia, del collegamento tra aree cerebrali non debba avvenire anche per gli stimoli e i contenuti veicolati dalla rete. Sì, ci sono due “ostacoli”: la minore concentrazione richiesta dai media digitali e la mancanza di tempo. Le informazioni sono troppe (perciò distraggono e confondono) e troppo accelerate e la tecnologia del web marcia inesorabilmente in questa direzione, così come lo fa l’organizzazione del lavoro e della vita sociale, sottraendoci tempo per la riflessione: “la mente contemplativa è sopraffatta dalla rumorosa attività meccanica del mondo”.
Carr ci racconta di essersi sottratto a questa coazione trasferendosi “da un quartiere di Boston altamente connesso alle montagne del Colorado”, senza telefono cellulare e con una connessione alla rete molto precaria. Così ha potuto scrivere con calma e continuità il libro di cui stiamo parlando – l’aveva iniziato in città, dove tuttavia lavorava “in modo scollegato, per frammenti”, senza la dovuta concentrazione. Ammette di essere fortunato, capisce bene che per i comuni mortali “il web è talmente essenziale per il loro lavoro e per la vita sociale che anche se volessero non potrebbero scappare dalla rete”. Ma allora non sarà un problema di organizzazione sociale e di relazioni sociali – e non una sorta di determinismo tecnologico – ciò che davvero ci affligge?
L’ammonizione ad essere sensibili “verso quello che si perde oltre che verso quello che si guadagna” è certamente condivisibile, ma la sua evocazione di ciò che si perde risulta un po’ generica e un po’ retorica: “elementi umani”, come titola l’Epilogo, “saggezza”, emotività, empatia … E l’indicazione delle alternative molto romantica, un po’ arcadica (brezze, profumi, rintocchi di campane contro locomotive sferraglianti, secondo l’immagine tratta da La macchina nel giardino di Leo Marx), un po’ vagheggiamento del passato. Il lettore digitale perde il senso del girare le pagine, così come l’agricoltore che usa l’erpice meccanica e il trattore perde la percezione del terreno … Sì sì, ma dire a me di mollare l’e-book (su cui ho letto e riletto questo libro in modo silenzioso, solitario e concentrato) per tornare alla carta, è un conto. Dire al contadino di tornare alla vanga, tutt’un altro.