Un’idea di ragione
Antonio Forza, Giulia Menegon, Rino Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino 2017.
Recensione di Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Apprestandosi a proporre, nella Critica della ragion pura, un modello delle facoltà conoscitive umane, Immanuel Kant (1724-1804) descriveva, metaforicamente, la propria meticolosa riflessione come tribunale della ragione. A esaminarla da vicino l’immagine kantiana risulta infelice. Di tribunali ne esistono di tanti tipi, e sappiamo che sono fallibili, mentre Kant pretendeva di essere arrivato a una descrizione definitiva e universale della ragione. Inoltre è quantomeno bizzarro che giudice, imputato, avvocati, testimoni, giuria e cronisti siano concentrati nella stessa persona, il che invece accadeva nel “tribunale” del pensatore prussiano. Infine, Kant speculava a tavolino, compulsando le opere dei grandi pensatori occidentali.
Nel loro breve ma denso libro Il giudice emotivo Antonio Forza, Giulia Menegon e Rino Rumiati fanno, in un certo senso, tutto l’opposto di quel che faceva Kant. Gli autori, in altre parole, descrivono il funzionamento della mente seguendo le scoperte sperimentali delle scienze cognitive e smontano l’idea di processo come circostanza in cui il pensiero può essere usato al meglio delle sue possibilità in modo obiettivo, logico, distaccato, così da produrre un giudizio equo.
Non si tratta, come si potrebbe essere indotti a pensare da una frettolosa lettura del titolo, di constatare semplicemente che anche i giudici hanno emozioni, le quali potrebbero interferire negativamente con la loro attività professionale. L’insegnamento, ben più profondo e forse anche inquietante, che si evince dal libro, è che l’idea stessa di ragione su cui è modellato il processo è fuorviata e fuorviante. Dobbiamo ripensare a fondo il modo in cui la ragione è concettualizzata, cominciando con l’idea che si tratti di una facoltà distinta dalle emozioni, e rispetto a cui queste ultime costituirebbero un’interferenza che può essere semplicemente imbrigliata ed evitata.
I sistemi giudiziari occidentali sono basati su una concezione “olimpica” della ragione, considerata anzitutto come “macchina logica”. Le scienze cognitive insegnano invece che ogni individuo valuta situazioni nuove seguendo “scorciatoie” (tecnicamente: delle euristiche) non necessariamente logiche e rispetto a cui non è facile mettersi al riparo. Per esempio, si tende a congetturare che uno sconosciuto che porta gli occhiali sia più probabilmente un bibliotecario che non un contadino anche se la persona è presa a caso in una popolazione in cui il numero di agricoltori sopravanza di gran lunga quello degli addetti alle biblioteche. E ancora: le emozioni, lungi dall’essere semplicemente un fattore di disturbo rispetto alla “ragione”, hanno un ruolo costitutivo nella formazione sia dei giudizi sia delle “narrazioni” attraverso cui organizziamo i dati della memoria. Non esiste, infine, nemmeno una sola mente. In primo luogo, individui distinti hanno differenti stili di pensiero. In secondo luogo, ciascuno possiede “strati” mentali, caratterizzati da diverse modalità di funzionamento, spesso in competizione tra loro nel giudicare gli stessi fatti. Tutto questo determina pesantemente lo svolgimento e l’esito dei processi, al di là e al di sopra delle competenze, e delle “buone” o “cattive” intenzioni dei giudici, ma anche delle altre persone coinvolte.
Il giudice emotivo, scritto a sei mani da due avvocati e giuristi (Forza e Menegon) e da un professore specializzato in psicologia della decisione (Rumiati) alterna passaggi tecnici ad altri più scorrevoli ma è, nel complesso, ben leggibile. Il riferimento principale è al processo italiano e a quello statunitense, con diverse incursioni, a mo’ di esempio, in casi giudiziari più e meno celebri. È importante, tuttavia, leggere questo libro tenendo presente che la sua lezione si applica non soltanto al contesto tribunalizio, ma a tutte le occasioni e istituzioni in cui ci si riunisce e coopera “razionalmente” per arrivare a un risultato condiviso (penso a concorsi universitari, giurie di competizioni artistiche, comitati di assunzione ...). E, in fondo, sotto inchiesta è ogni e qualunque atto di giudizio da parte del singolo individuo, ancorché “irreggimentato”: per esempio, quanta soggettività, quante interferenze, nella correzione che un professore produce dell’elaborato di uno studente, per quanto condotta sulla base di una “tabella” valutativa ...
Si chiude il libro rimanendo con la sensazione che non solo l’istituto del processo giudiziario sia da rivedere, ma che proprio la nozione di individuo pensante, attraverso cui interpretiamo noi stessi nei nostri comportamenti quotidiani e apparentemente elementari, richieda una ridefinizione radicale.
Per finire, una curiosità: l’ideogramma giapponese riportato sulla copertina del libro significa “emozioni”.