In favore della pena di morte. Ipse dixit

Francesco D’Alpa   

Nel 1853 il nuovo Codice penale del Granducato di Toscana reintroduce la pena di morte, abolita (primo caso al mondo) nel precedente Codice Leopoldino del 1786; ma in seguito sia il Governo provvisorio toscano (nel 1859) sia il Regno d’Italia (col Codice Zanardelli del 1889) l’aboliscono definitivamente.

Fra questi estremi si colloca la lotta de La Civiltà Cattolica contro la sua abrogazione (insieme politica e religiosa; sempre dura e sprezzante per la parte avversa) [1].

I temi essenziali ed il tono che caratterizzano questa lunga polemica (della quale mi limito a riportare solo qualche cenno di parte gesuita) sono già esplicitati in un primo articolo che plaude proprio alla recentissima “Pena di morte ristabilita in Toscana”. L’antiabolizionismo dei gesuiti sarebbe, come in tante altre questioni, strettamente (quasi umilmente) motivato da ineludibili Verità superiori:

Se invece di mirare allo scopo prefissoci nel nostro Programma di chiarire il vero nelle dottrine sociali, badassimo ad accattare popolarità e plausi, non torneremmo a toccare questo soggetto; ben vedendo qual partito possano trarne per gridarci barbari, selvaggi, sanguinarii coloro che credono di salvar la società quando hanno rassicurato il delitto [2].

I veri sanguinari sarebbero invece quelli che cospirano in nome di una “stolta filantropia” e di una “furba ipocrisia”; e fra questi primeggerebbe Cesare Beccaria, emulo degli “imitatori, adulatori e adoratori di quanto ebbe in quel secolo la Francia di più empio, più grossolano e più turpe dai D’Alembert, Diderot, Elvezio, fino all’ignobilissimo barone d’Holbach” [3] del quale è stato appena ristampato

un altro di quei libri coi quali il Le Monnier continua la serie rediviva degli avvelenatori d’Italia [giacché] il Beccaria si formò all’empietà volteriana bevendola a torrenti negli scellerati volumi degli enciclopedisti: ne seguì in filosofia il materialismo; in politica i delirii del Rousseau; in amministrazione il dispotismo giuseppistico ad oppressione della Chiesa: il tutto coperto d’una maschera d’ipocrisia, e condito d’uno stile che un suo encomiatore appella pessimo stile [e la sua opera è un] tossico riscaldato estratto dalle fredde ceneri del sofista già sepolto. [Ma, purtroppo, accade che] in ogni tempo l’Italia abbia voluto coprirsi dei cenci di rigattieri francesi [presi] nel fracidume dei sepolcri [3].

Contro Beccaria (e coloro che ne condividono i principi) non si lesina certo in insulti, ad esempio: “Alla meschinità di cotesto personaggio morale corrisponde perfettamente la meschinità del filosofo, tutta la cui grandezza è fondata sul trattatello dei delitti e delle pene” [4].

L’idea, sostenuta da Beccaria, di commutare la pena capitale in lavoro forzato risulta particolarmente indigesta ai gesuiti, che ne paventano l’estensione applicativa:

E certamente fra i caratteri delle leggi barbariche notati dai criminalisti, uno fu quello di concedere agli omicidi il redimersi con multa dalla pena. Quel vedere calcolato a tanti soldi di oro il valore di una vita umana è cosa si dissona dall’altissima idea che il cristianesimo ne ispira! Or qual gran differenza metterebbe fra i soldi d’oro e i lavori forzati quel marchese Beccaria, che vorrebbe sostituire essi lavori alla pena di morte, affinché il colpevole rendendosi utile alla società le compensi il danno recatole? II ridurre in tal guisa alla turpe grettezza di lire, soldi e danari le sublimi e terribili idee del delitto perturbatore dell’ordine e della giustizia sua riparatrice, è uno di quei marchi d’infamia che formeranno in tutte le età il vitupero della filantropia utilitaria [2].

La filantropia laica, che oggi meglio definiremmo umanitarismo è costantemente percepita come un demone, opposto all’amore cristiano, che insidia le coscienze. I filantropi

fermi nel principio […] di non rispettare se non l’evidenza del proprio pensiero, al genere umano che, tranne rare eccezioni, sancì per 60 secoli la pena di morte, gettano arditamente in faccia l’accusa d’ignoranza o di crudeltà. In quanto poi alla Scrittura Santa, peggio per lei se vuole mettersi in guerra contro l’umanità filantropica: chi ci crede la difenda come può: chi non ci crede è sciolto da ogni briga, e può senza scrupolo scannare i carnefici e scomunicare i tribunali, salvando per sempre dalla morte le tante vittime condannate dalla spietatezza cattolica [5].

Evvi dunque nel profondo sentimento dei redenti dal patibolo di un Dio crocefisso il doppio elemento di vera filantropia, la santificazione del supplizio e la giustificazione del perdono; ma questi elementi sono tali, che la severità del supplizio serbasi a terror del delitto e a tutela della società; la possibilità del perdono s’intravede solo da lungi e fra le tenebre della improbabilità, condizionata sempre ad una straordinaria e non debita ispirazione della clemenza, mossa da segni indubitati di pentimento che può implorar la grazia senza mai meritarla per giustizia. Così riguardavasi la pena di morte dagli avi nostri, qualunque fossero le varie tinte più o meno sanguigne in cui andavano sfumandosi i caratteri e l’indole delle nazioni e dei codici. I quali serbavano in tal guisa tutta la forza necessaria, lasciando alla maggiore o minore perfezione dei sudditi il meritarne più o meno mitigata l’applicazione. I criminalisti alla moda trovarono più opportuno per accattare plausi in piazza e favorire l’audacia nei clubs l’andar buccinando gli encomii spasimati delle clemenze assolute: e ridussero in tal guisa i Governi a rifare ogni dieci anni le leggi, la società a palpitare ogni dieci giorni sotto il pugnale, gli assassini a non conoscere più né il terrore della pena nè le dolcezze del pentimento [2].

Alla condanna della filantropia viene associata inevitabilmente quella della massoneria, con crescente enfasi nei sopravvenienti anni risorgimentali: “L’abolizione della pena di morte è un’idea, messa innanzi principalmente e caldeggiata dalla Frammassoneria. […] la Frammassoneria vuole abolita la pena di morte, specialmente per salvare così dalla pena di morte i suoi sicarii, i quali potranno così impunemente applicare la pena di morte ai condannati a morte dai tribunali settarii” [6]. Alla malvagità della filantropia e della massoneria, come in un tripode incendiario, si accompagnerebbe quella del liberalismo:

II liberalismo abolendo la pena di morte scatena gli assassini, salva i suoi sicarii, spaventa i buoni, assicura i tristi. Chi non vede che il liberalismo ha ogni interesse nell’abolire la pena di morte, e non ne ricava alcun danno? Non ne ricava danno perché, se egli condanna a morte taluno, non ha bisogno del carnefice ufficiale, avendo ai suoi ordini prezzolali e giurati sicarii pronti ad ogni occasione. Vi ha invece ogni interesse perché i suoi sicarii ufficiali e prezzolati saranno dopo l’assassinio sicuri dal carnefice ufficiale. La cosa è tanto chiara, che veramente non si può intendere, come i popoli col loro buon senso naturale non la intuiscano da sé, senza bisogno di tante spiegazioni. […] Se dunque il liberalismo vuole l’abolizione della pena di morte, non è per amore, ma per odio dell’umanità; pel proprio interesse particolare, ed anche, se volete, per ipocrisia; per coprire cioè con un nuovo mantello di filantropia e di beneficenza quel suo spirito crudele, sanguinario, barbaro e satanico, da cui è mosso in odio della società cristiana, redenta da Gesù Cristo, civilizzata dalla Chiesa, la quale egli vuole ridurre al paganesimo ed alla barbarie antica [7].

L’antagonista, come appare ben chiaro, è l’avanzante modernità, con le sue istanze progressiste, percepita invece come disgregatrice della vera civiltà, basata sui tradizionali principi e valori cristiani:

è incredibile a dire con quanto studio il liberalismo moderno si adopera per l’abolizione della pena di morte. Non ci ha delitto, quantunque gravissimo, che ai suoi occhi ne apparisca meritevole […] Qual è la ragione di tanto odio dei liberali per questa pena? A mirarne il fondo, cotesto odio è natural sequela dei principii liberaleschi e de’ suoi interessi settarii. Concetto fondamentale del liberalismo è la libertà del male. Or la pena di morte è il più forte freno, posto ai malvagi per trattenerli. Essa è tutta in favore dei buoni, e in danno dei tristi. I buoni non hanno nulla a paventare dalla pena di morte; giacché per la costante loro adesione all’onesto, essi son lungi le mille miglia dal meritarla giammai [8].

Il popolo viene così chiaramente scisso in due partiti: “I sanguinarii, i crudeli, i sicarii, i frammassoni vogliono abolita la pena di morte. I miti, i cortesi, i pacifici, i buoni cattolici la vogliono mantenuta” [6]. Da qui un male morale ed un pericolo sociale emergenti:

L’introduzione sconsiderata della giuria; la teorica della forza irresistibile; la negazione della libertà umana, recata fino innanzi ai tribunali; le dottrine sulla pazzia criminosa; la rivendicazione di agi e di riguardi pei rei carcerati uguagliandoli in ciò, anzi preferendoli, agli onesti indigenti; per ultimo l’abolizione della pena di morte; sono tutti ingegni di un solo sistema, del quale conviene esser cieco per non vedere la somma e lo scopo: cioè oscurare nella mente dei popoli il concetto del male morale, toglierne l’orrore e favorirne il trionfo [9].

Su queste basi, nel 1856 La Civiltà Cattolica tuona contro una proposta abolizionista presentata alla Camera degli Stati Sardi:

Noi incominciamo a raccogliere il frutto delle interpellanze del deputato Brofferio, avendo gli uffizii della Camera consentita la lettura d’un progetto di legge presentato dal deputato Annoni contro la pena di morte. II progetto non ha che un solo articolo e dice cosi: “È fatta facoltà al giudice di commutare la pena di morte in quella dei lavori forzati, ogni qualvolta concorrano circostanze mitiganti a favore del colpevole”. II deputato Sineo ha egli pure proposto quattro progetti di legge, per abolire la pena di morte in certi casi particolari, e per dare addosso alla pubblica sicurezza. Sineo ed Annoni con tutti gli altri nemici della pena di morte ragionano del fatto che questa riesca inutile, poiché quasi ogni settimana s’appende gente per la gola. Se questo ragionamento prova, noi vedremo ben presto spalancate le porte delle prigioni, potendosi queste pure dire inutili, giacché ogni giorno si riempiono di nuovi malfattori. Non si sa proprio capire come mentre tanto tra noi si moltiplicano i delitti, i deputati studino con tutto l’impegno la maniera di favorire chi li commette [10].

Detto questo degli anticlericali, un rimprovero ed un monito (tacciandolo, in buona sostanza, di ignoranza o superficialità teologica) La Civiltà Cattolica lo rivolge anche ad uno di quei buoni cristiani (un monsignore) che proprio guardando al Vangelo predicano contro la pena di morte:

“La Chiesa, egli dice, ha sufficientemente manifestato il suo spirito mite e lontano da qualunque pena di sangue, per gli oracoli del suo codice che è la Bibbia, per le dottrine dei Padri e dei dottori, per le decretali pontificie e per la propria storia”. Queste parole di un ecclesiastico sì pio e sì dotto, unitamente alla dimostrazione che egli si studia di farne, potrebbero facilmente indurre i semplici a credere che la mitezza della Chiesa e l’orrore che essa ha dello spargimento del sangue, giunga fino a farle riprovare come ingiusta la pena di morte, inflitta dalla legittima autorità civile. Le quali due cose son ben diverse. Imperocché la Chiesa, intesa a guarire le anime, rifugge da pene troppo afflittive del corpo; ma non per questo nega il diritto della potestà civile di punire nel capo chi si rese reo di gravissimo delitto. Mons. Zanghy appella alla Bibbia, ai Padri, ai Dottori, ai Pontefici, alla storia della Chiesa. Noi crediamo che anzi da tutto ciò può cavarsi argomento contro la sua opinione [11].

Ma a partire da quali fonti documentarie si muovono i gesuiti (e dietro di loro il Pontefice, che certifica ogni loro scritto)? Come sempre, su questa rivista, i riferimenti sono innanzitutto la scolastica e un poco in subordine la tradizione:

tutti i teologi, con a capo S. Tommaso, riconobbero la giustizia della pena di morte. La dottrina teologica ritenne sempre legittima la pena di morte. Or sembra […] piccola bagattella il consenso dei teologi nella Chiesa? Esso è prova indiretta che il punto […] è verità cattolica. Conciossiaché i teologi son quelli, a cui si uniformano i maestri nel loro insegnamento, i predicatori nei loro discorsi, i confessori nella direzione delle anime; e l’Episcopato col non contraddire conferma implicitamente la loro dottrina. Onde abbiamo in favore della legittimità della pena di morte, insieme col suffragio del genere umano, quello altresì della Chiesa cattolica. Ciò dovrebbe bastare per ogni persona assennata [12].

E, tanto per ribadire e dare maggiore autorevolezza al concetto: “quando una dottrina è concordemente sostenuta dagli Scolastici, fa segno che essa è dottrina ricevuta universalmente nella Chiesa di Dio” [11]. La morale cattolica potrebbe dunque solo mitigare, a determinate condizioni, la necessaria severità della pena, usuale nel mondo antico e ben presente nelle Sacre Scritture:

Noi per fermo siamo le mille miglia lontani dal disapprovare i voti innocenti di coloro che, per mitezza d’animo e sentimento d’innata bontà, vorrebbero che la pena di morte andasse in disusanza fra i popoli civili. Ma non ci pare che questo voto possa compiersi con vantaggio della pubblica tranquillità, e con risparmio del sangue innocente, se l’orrore del delitto e il rispetto dovuto alla giustizia non giungono a mettere sì profonde radici nell’animo che cessi il bisogno di sì rigorosa sanzione. A questo dovrebbero mirare principalmente i zelatori della morale, persuadendosi che l’unico modo di mitigare il codice penale, si è di diffondere nel popolo l’appuramento dei costumi e l’amore della virtù [13].

Lo sguardo del credente deve in buon conto allontanarsi dalle preoccupazioni terrene (che trovano nella giustizia punitiva la giusta soluzione), e rivolgersi sempre alla prospettiva ultraterrena, che esalta il carattere redentivo della pena. Solo così si può comprendere il senso della pena di morte:

Se colla morte l’uomo perisse interamente ritornando al nulla dal quale emerse, non ha dubbio che la vita presente non potrebbe volgersi alla conservazione dell’ordine sociale, la cui partecipazione sarebbe il fine destinatogli dalla natura. Ma allora non esisterebbe vero diritto, virtù vera, ordine morale universalissimo, apodittico, assoluto. […] La pena di morte non fa dunque servire unicamente l’umana personalità all’attuazione del diritto sociale, ma al bene morale proprio ed incomunicabile del condannato, all’asseguimento del suo ultimo fine [13].

Bibliografia

[1] Occorre tenere presente che La Civiltà Cattolica non pubblica scritti di persone estranee alla sua redazione. Dunque Ipse dixit, perché non assistiamo mai ad un contraddittorio.

[2] Luigi Taparelli D’Azeglio, La pena di morte ristabilita in Toscana. LCC, 1853, serie II, vol. I, pp. 63-68.

[3] Recensione a: Pasquale Villari, Le opere di Cesare Beccaria precedute da un discorso sopra la vita e le opere dell’Autore. Firenze, 1854. LCC, 1853, serie II, vol. VII, pp. 394-406.

[4] Recensione a: Casare Cantù, Beccaria e il Diritto penale. Firenze, 1862. LCC, 1862, serie V, vol. IV, pp. 73-91.

[5] Recensione a: Pietro Ellero, Della pena capitale. Venezia, 1859. LCC, 1860, serie IV, vol. VII, pp. 589-598.

[6] Recensione a: Antonio Stefanucci Ala, La Pena di morte e la Società odierna. Roma, 1874. LCC, 1874, serie IX, vol. IV, pp. 199-209. Le accuse alla massoneria verranno sostenute più in dettaglio in un successivo articolo: Raffaele Ballerini, Lo zelo massonico per la pena di morte. LCC, 1884, serie XII, vol. VII, pp. 257-267.

[7] Giuseppe Oreglia di S. Stefano, La frammassoneria e l’abolizione della pena di morte. LCC, 1865, serie VI, vol. II, pp. 385-397.

[8] Matteo Liberatore, La pena di morte. LCC, 1870, serie VII, vol. XI, pp. 668-674.

[9] Francesco Salis Seewis, I principali argomenti addotti per l’abolizione della pena di morte. LCC, 1888, serie XIII, vol. XI, pp. 547-560.

[10] Stati Sardi (corrispondenza), I progetti di legge contro la pena di morte. LCC, 11856, serie III, vol. II, pp. 360-361.

[11] Recensione a: Giuseppe Coco Zanghy, Il Cattolicesimo e la pena di morte. Brevi considerazioni. Catania, 1874. LCC, 1875, serie IX, vol. 5, pp. 65.72.

[12] Recensione a: Cesare Beccaria e l’abolizione della pena di morte. Milano, 1872. LCC, 1872, serie VIII, vol. VI, pp. 703-711.

[13] Recensione a: Albini P.L, La pena di morte: lezioni accademiche. Vigevano, 1852. LCC, 1853, serie II, vol. III, pp. 432-442.