Leggere libri di ogni sorta. Recensione a: Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica. il Mulino 2017, € 16,00, 300 pp.
Stefano Bigliardi Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Claudio Giunta è professore di Letteratura Italiana all’Università di Trento. È stato allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa e ha insegnato come visiting professor nelle università di Chicago, Tokyo, Sydney, Rabat. Tra i suoi lavori si annovera la produzione di un manuale di letteratura, comprensivo di antologia, per gli ultimi tre anni delle scuole superiori. I saggi che compongono E se non fosse la buona battaglia? sono quindi scritti dal punto di vista di chi non solo ha ricevuto un’istruzione umanistica ma chi con quella istruzione e su quella istruzione lavora, ad altissimo livello. Eppure, questo libro critica l’istruzione umanistica. O meglio, ne critica una certa impostazione e percezione. Giunta infatti esce dai soliti schemi, articolando dubbi sull’utilità e il senso del proprio lavoro: riserve che molti suoi colleghi potrebbero nutrire, ma solo oscuramente, mentre altri ancora potrebbero condividerle, senza tuttavia renderle pubbliche, nel timore di fornire armi ai già potenti detrattori di letteratura e affini.
L’autore va al di là dei soliti e stucchevoli elogi delle Lettere intese come campo del sapere che nobilita e sana al solo contatto, alla stregua di re taumaturghi; critica l’ossessione degli insegnanti delle superiori per il completamento del programma, peraltro sterminato e quindi inevitabilmente velleitario; respinge le etichette magniloquenti ed elogiative (Dante, “Sommo Poeta”) e le formule schematiche (Leopardi dal “pessimismo individuale” al “pessimismo cosmico”) che si usano nell’impartire la letteratura; deplora la mania accademica, che spesso contagia i manuali scolastici, per la dissezione accanita dei testi letterari, quasi si trattasse di esercizi per “i solutori più che abili” (come recita una formula classica de La Settimana Enigmistica).
Giunta spiega, in modo convincente, che occorre abbandonare l’illusione che si debba sapere tutto, ma anche l’ossessione per i raggruppamenti, le etichette, il vaglio cavilloso dei testi. La letteratura non rende migliori d’animo (altrimenti, aggiungo io, ogni Dipartimento di Italianistica o simili sarebbe un idillio umano e professionale), e non è nemmeno detto che tutte le grandi opere letterarie debbano piacere. Spesso, poemi e romanzi sono noiosi, e veicolano messaggi o ideali che semplicemente non fanno più presa sull’umanità d’oggi; non perché quest’ultima sia insensibile e cinica, ma semplicemente perché i tempi cambiano e con loro le categorie estetiche e morali. A questa evidenza, secondo Giunta, è meglio arrendersi. Non è nemmeno vero che la sola letteratura di valore è quella che veicola grandi ideali. Lo studio della letteratura a livello scolastico dovrebbe invece essere una palestra per imparare la cura, “le umili virtù della precisione e dell’accuratezza”, la cui utilità si estende ben al di là della materia specifica, visto che si tratta di qualità che fanno il buon cittadino. “Per molti, me compreso” scrive Giunta “i libri e la scuola sono stati anche questo: un modo per allontanarsi da un linguaggio e per impararne uno migliore: più preciso, elegante, ricco di parole e di idee. È stato anche un modo per conquistarsi la propria voce, e quella voce usarla in pubblico” (p. 77). Non ci sono “scrittori né opere imprescindibili”; lo studio della letteratura, secondo Giunta “significa imparare a leggere libri di ogni sorta e avere voglia di leggerne altri” (p. 103).
Il libro contiene anche pagine sferzanti e acute contro varie tendenze imperanti nell’università. Giunta spiega, con intelligenza e ironia, come l’ossessione per il linguaggio manageriale e motivazionale, e per il collegamento università-impresa, non faccia altro che creare e al tempo stesso mascherare un “terziario pletorico, [un] oceano di fuffa nel quale galleggiano progetti ed eventi, e uffici che pianificano, vagliano, preparano progetti ed eventi” (p. 191). Meglio si farebbe, osserva Giunta, a tornare all’idea per cui la missione dell’università è primariamente creare individui più istruiti, e docenti preparati, non persone “impiegabili”. La ricerca umanistica (per riferirsi alla quale Giunta suggerisce di tornare alla parola studio) non è per tutti. È sbagliato, sostiene Giunta, respingere la misura del “numero chiuso” come classista.
Posso solo menzionare sommariamente altre pagine illuminanti di questa raccolta, e cioè quelle sull’inutilità degli eterni supplementi di formazione per chi aspira a fare l’insegnante, e quelle sull’inanità di certi manuali di didattica, capolavori di nonsense e di comicità involontaria. Ottime anche le pagine finali, in cui l’autore conduce una sincera disamina di che cosa ha significato, per lui, diventare uno studioso, e che cosa uno studioso è e dovrebbe essere veramente. Sono pagine che vanno semplicemente lette per intero, apprezzandone l’acume, la chiarezza, la lealtà.