Io non discrimino ma...
Graziella Priulla
La maggior parte dei Paesi europei si è dotata di una legislazione penale che estende i crimini d’odio all’omotransfobia (gli interventi non riguardano le opinioni ma la violenza, l’istigazione a commettere atti violenti e la lesione della dignità delle vittime). Non hanno una legge in materia Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Italia, Lettonia, Moldavia, Polonia, Russia, Turchia e Ucraina.
In altre sfortunate parti del mondo – Arabia Saudita, Somalia, Nigeria, Iraq, Siria – l’omosessualità è considerata un crimine e viene punita addirittura con la pena di morte. In 72 Paesi le relazioni tra persone dello stesso sesso sono ritenute patologiche e sono definite illegali, benché la tutela dei membri della comunità LGBT+ sia uno dei principi fondamentali del sistema dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Che l’Italia del terzo millennio, a partire dalle sue istituzioni, sia ancora riluttante a prendere atto della varietà degli orientamenti sessuali umani è dimostrato da due episodi recenti: l’affossamento in Senato del Ddl Zan, accolto da sguaiati applausi di giubilo, e il coming out televisivo dell’ex ministro Vincenzo Spadafora, con un seguito di commenti acidi e sarcastici. Le battaglie laiche di civiltà vengono messe in discussione da forze oscurantiste; assistiamo all’ascesa di partiti xenofobi e reazionari che predicano la disuguaglianza.
Ogni sconfitta parlamentare ha avuto le sue tattiche, la sua cronaca di atti e regolamenti. Ogni volta le ragioni erano altre. Siamo fermi da 25 anni e dovremo aspettare ancora, mentre gli atti di bullismo, le aggressioni fisiche, le intimidazioni e le minacce omofobe si moltiplicano in tutto il Paese e spesso le vittime e i loro familiari, per motivi forse non condivisibili ma da rispettare, non hanno il coraggio di esporsi e sopportano fatti anche gravi senza denunciare, per sfiducia nella giustizia e in assenza di una legge specifica che li tuteli. Per i delitti che hanno come causa l’omotransfobia ci troviamo di fronte a due fenomeni: l’under-reporting e l’under-recording. L’under-reporting è la mancata denuncia. L’under-recording è quando, essendoci la denuncia, il delitto non viene registrato con la sua matrice. Poiché manca una norma specifica è impossibile avere statistiche ufficiali.
Il 2021 è l’anno in cui, secondo Ilga Europe (associazione internazionale per i diritti presente all’Onu), l’Italia è scesa al 35° posto della classifica dei Paesi europei per politiche a tutela dei diritti umani e dell’uguaglianza delle persone LGBT+ (lesbiche, gay, bisex e trans).
178 denunce in un anno. Giugno 2021 è stato il mese più omofobo di sempre: 19 denunce per un totale di 30 vittime: una al giorno. Nel 2020 se ne erano registrate 20; 19 nel 2019; 29 nel 2018; 16 nel 2017 e così a decrescere negli anni precedenti. Un altro dato sconcertante è l’abbassamento dell’età media delle vittime. 12 di esse hanno meno di vent’anni; due ne hanno 13 e altre due addirittura 12. Ambienti privilegiati, la strada e la scuola; molto spesso nessuno interviene in difesa. La violenza di matrice transomofobica colpisce ovunque, nessuna città si salva. Nemmeno Bologna, dove nel 1982 è nato il primo centro italiano Lgbt+, e dove Franco Grillini, politico e storico leader della comunità, ha mosso i primi passi.
Nell’Italia retrodatata tutto questo è visto come minaccia al mondo eterosessuale, alla famiglia tradizionale, ai giovani e alla loro crescita “corretta”, alla coesione sociale. Molti genitori paventano il solo pensiero che se ne parli a scuola.
Nella triste classifica della discriminazione e dell’odio al primo posto viene il razzismo, al secondo l’omofobia. È questo l’elemento principale che emerge dai dati forniti alla Commissione Giustizia del Senato dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori istituito presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno. Il 96% delle persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali riferisce di sentire tutti i giorni commenti o scherzi denigratori nei confronti di omosessualità e transessualità.
Le dinamiche ormai sono arcinote.
All’interno dello spazio pubblico definito dal linguaggio alcuni soggetti sviluppano le caratteristiche necessarie per rientrare nella categoria degli individui “normali” mentre altri, classificati come irregolari e per questo minacciosi e pericolosi, sono marginalizzati ed esclusi. Contro di loro ci si ritiene legittimati ad usare le parole – e non solo – come oggetti contundenti.
Frocio, finocchio, lesbicona e i loro sinonimi, con un corredo di aggettivi spregiativi, sono parte del quotidiano e vengono utilizzati per offendere. Questo tipo di linguaggio rafforza e trasmette la convinzione che l’omosessualità sia negativa e indesiderabile e nasce da disgusto, imbarazzo, disagio e – come esprime il termine “fobia” – paura.
Tra ciò che non si capisce e quindi si teme è incluso il diverso da noi, nelle sue varie declinazioni: costituisce l’ambito del temuto socialmente e dell’invivibile; è vissuto come un attentato alla propria identità. Nasce dalla contrapposizione, insita nel mainstream della nostra cultura pur così intrisa di individualismo, che vive l’uniformità come valore positivo e la differenza come disvalore, che assume come fondanti assi binari e dicotomici. A volte la paura è inconscia e repressa, altre volte è esplicita e violenta: malapianta in un modo o nell’altro sempre presente, prolifera nei piccoli atti della quotidianità come nelle manifestazioni più plateali.
L’oppressione e la discriminazione nei confronti degli omosessuali è una forma particolarmente radicata di dominio simbolico. Se l’accusa di non essere abbastanza uomo o di non essere abbastanza donna diventa un insulto, è perché la cultura dominante fissa con rigido puntiglio l’elenco di tutto ciò che ci si aspetta da un uomo o da una donna. La norma reazionaria si spaccia per normalità: una normalità popolata da personalità inclini al conformismo. Il processo di allineamento all’opinione dominante è un processo a spirale, in cui l’allineamento del singolo è rafforzato dall’allineamento degli altri.
L’accusa di essere gay parla il linguaggio di una maschilità colpita nei suoi timori più profondi e inconfessabili. Nelle società occidentali la mascolinità viene infatti definita con il prendere le distanze da qualcosa: imparare ad essere uomo significa imparare a non essere femminile e a non essere omosessuale. Gli epiteti spregiativi riferibili a mancanza di mascolinità sono ampiamente e precocemente utilizzati tra i pari e sono considerati i peggiori insulti possibili per un ragazzo. Un tredicenne di Torino in un tema raccontò la sua passione per la danza e due coetanei lo picchiarono selvaggiamente procurandogli lesioni ai legamenti del ginocchio sinistro: “E adesso prova a ballare se ci riesci!”.
Come dimostra la relativa carenza di termini ingiuriosi, il pregiudizio colpisce molto di più l’omosessualità maschile che quella femminile: soprattutto la prima è ritenuta una minaccia all’identità sessuale, a conferma del fatto che è lo sguardo dei maschi che ha costruito questo tipo di cultura, che è il principio maschile dominante ad essere incrinato. “Essere uomo” significa prima di tutto non-essere donna. Questo i piccoli italiani lo imparano prestissimo.
Anche rispetto alla transessualità i maschi che esprimono identità di genere femminile sono maggiormente stigmatizzati e discriminati: questo fenomeno è già osservabile nelle scuole, a cominciare da quelle elementari (ad esempio un bambino a cui piace giocare con le bambole viene solitamente preso in giro con maggior violenza di una bambina che vorrebbe giocare a calcio). Se un ragazzo viene definito “femminuccia” viene bollato, emarginato e umiliato. Se una ragazza viene definita “maschiaccio” non è ugualmente disapprovata (al più, verrà corteggiata un po’ meno). In realtà ogni “vero maschio” si rifiuta di pensare che una donna possa preferirgli un’altra donna.
In pochi decenni sono mutati ruoli e condizioni materiali, sono mutate le forme della sessualità e della famiglia, le forme estreme del machismo stanno tramontando; molto più lentamente muta l’immaginario di riferimento su cui si è costruita nei millenni la supremazia maschile.
È ovvio che non si nasce razzisti, non si nasce omofobi, non si nasce sessisti; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi diretti e indiretti che la famiglia, gli amici, la scuola, la Chiesa e i media ci trasmettono.
Il processo di allineamento all’opinione dominante è un processo a spirale, in cui l’allineamento del singolo è rafforzato dall’allineamento degli altri. Si parte dalla diffidenza e si arriva alla stigmatizzazione, che legittima la discriminazione, e poi alla deumanizzazione, che legittima la violenza. Quando l’odio di uno diventa ondata entrano in gioco meccanismi premianti che derivano dall’approvazione degli altri e che accrescono le probabilità che il comportamento si riproduca.
Esistono imprenditori che li mettono coscientemente in atto per tutte le paure. Gli attacchi più pesanti nei confronti delle persone omosessuali vengono da chi incita all’intolleranza in discorsi pubblici intrisi di odio. Discorsi discriminatori meno violenti ma demonizzatori si ascoltano però anche da molti cattolici forti di una tradizione bimillenaria, in un’ossessione che non deriva dagli insegnamenti di Gesù ma dalle fissazioni di antichi Padri della Chiesa dediti al controllo della sessualità altrui. Sostengono la bizzarra idea che la famiglia, così come si è costruita nella storia, si difenda e si rafforzi proibendo altri tipi di unione. La storia dei rapporti tra religione cattolica e sessualità umana è dolorosa e contrastata e ha visto inedite esasperazioni, così come siamo assuefatti a indebite ingerenze dello Stato vaticano nella legiferazione dello Stato italiano. Pur mitigando la condanna totale pronunciata in passato, ancor oggi la Congregazione vaticana per la dottrina continua ad opporsi ad ogni atto omosessuale in quanto “intrinsecamente disordinato” perché non mirato alla procreazione.
Anche le allusioni pesanti, le frasi a doppio senso costruiscono il terreno quotidiano in cui l’omofobia si radica; lo concimano le esternazioni della politica. Negli altri Paesi europei sono omofobi solo gli esponenti dell’estrema destra, da noi i membri del governo.
”Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”: la dozzinale battuta di Berlusconi è convinzione condivisa da molti maschi del Paese. Spesso non si tratta soltanto di battute ma di vere e proprie menzogne, come quelle relative a un’inesistente, fantomatica “teoria” usata come spauracchio e inventata dalle persone che la criticano. Si tratta di fake news ben confezionate, che dicono alla gente ciò che la gente desidera sentirsi dire, che diffondono il panico tra genitori poco informati. È nelle aule di Satana (sic!) che, secondo i nuovi crociati, la potentissima lobby lesbica, gay, bisessuale e transgender starebbe cercando di inculcare nelle menti delle giovani generazioni la temibile e mai definita “ideologia gender” (o teoria gender, o genderismo, o dittatura gender, a piacere).
Il 4 novembre il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli ha addirittura scritto su Twitter che per effetto della legge Zan contro l’omotransfobia “sarà obbligatorio insegnare ai bambini alle elementari a scegliere, anche a giorni alternati, se sentirsi o maschi o femmine o trans”. Pazienza se la misura si limita a chiedere alle scuole – in termini generici – di “promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione”.Ogni pretesto è buono. I cattolici tradizionalisti denunciano una nuova malvagia idea: alcuni negozi hanno smesso di dividere i giocattoli “per bambini” e “per bambine”, e vendono ai piccoli qualsiasi giocattolo vogliano a prescindere dal sesso. Indifferentismo sessuale! Scandalo!
In Europa c’è da tempo evidente imbarazzo nei confronti di questa deriva della cultura italiana. Nel 2004 il ministro italiano per le Politiche comunitarie Rocco Buttiglione non venne accettato come commissario europeo alla Giustizia e agli Affari interni a causa della sua notoria omofobia. Un suo collega, Mirko Tremaglia, rilasciò una dichiarazione di solidarietà su carta intestata del ministero che affermava: “Purtroppo Buttiglione ha perso. Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza”. Nessuna conseguenza politica dopo il comunicato: che cosa sarebbe successo in qualsiasi altro Paese europeo?
Un altro ministro, Roberto Calderoli, lamentava: “La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”; “qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”; “essere culattoni è un peccato capitale”; “invece di creare la Margherita questi signori, visto che esaltano il gay-pride, utilizzino come simbolo il finocchio!”.
Piero Buscaroli, esperto di linguaggio della destra e candidato alle elezioni europee per Alleanza Nazionale, fin dal 1994 sconsigliava di usare il termine “gay” con una motivazione di questo tipo: “La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento”.
Per onestà bisogna riconoscere che le “viscere” omofobe e misogine su cui la destra antipolitica fa breccia per raccogliere consensi non sono che il sedimento di antichi pregiudizi che la sinistra istituzionale ha sempre sottovalutato (ricordate Pasolini? E Braibanti?), diffidente dei cambiamenti della società, pavida di fronte ai movimenti di liberazione, timorosa di perdere i voti dei cattolici.
Eppure la risoluzione europea sull’omofobia approvata a Strasburgo il 18 gennaio 2006 la metteva sullo stesso piano del razzismo, della xenofobia, dell’antisemitismo. Da allora il Parlamento europeo è stato molto attivo, varando ben cinque risoluzioni, istituendo una Giornata europea per la lotta contro l’omofobia, mettendo a punto un programma di monitoraggio, scrivendo a più riprese che “le istituzioni hanno l’obbligo di prevenire e contrastare la discriminazione” e che tacere “viola i diritti umani”.
Negli ultimi 15 anni diverse ricerche si sono concentrate sulla comparazione tra assetti di leggi e politiche nazionali, considerati come vettori dell’omofobia delle istituzioni. Hanno contribuito a consolidare l’idea di un eccezionalismo italiano, basato sul peso politico della Chiesa e sulle posizioni omofobe espresse da importanti uomini delle istituzioni.
Su tutto questo e molto altro consiglio il testo di Paolo Gusmeroli e Luca Trappolin, Raccontare l’omofobia in Italia, Rosenberg & Sellier, Torino 2019; in particolare il cap. IV.