Dio è maschio (e un po’ misogino)

Stefano Marullo     

robabilmente Giuliana Sgrena nel suo libro Dio odia le donne [1] si è basata su un metodo squisitamente empirico per inferire che nei tre monoteismi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, solo un Dio rigorosamente maschio poteva disprezzare con tanta passione il genere femminile. La divinità, a fortiori, quantomeno dovrebbe essere neutra.

Invece, partiamo dall’Ebraismo, il Dio guerriero dell’Antico Testamento non lascia adito a dubbi: da che mondo è mondo a fare la guerra sono gli uomini, le donne devono starsene a casa ad accudire la prole. Anche quando deve prendere la decisione di distruggere l’umanità, pentito della sua stessa opera, attraverso il diluvio, Mr. Jahvhè, secondo quanto riporta la Bibbia, decide interrogandosi tra sé e sé senza alcuna interlocuzione con eventuali entità divine “al femminile” che magari avrebbero potuto, chissà, convincerlo a lasciar perder e a migliorare qualche meccanismo nella creazione. A dirla tutta qualcuno giura che Dio avesse una moglie e che il suo nome fosse Asherah e che tracce, opportunamente modificate, si trovino persino nel libro veterotestamentario dei Re, ma eviteremo in questa sede di violare la privacy. La Bibbia in realtà offre parecchi spunti piuttosto inequivocabili rispetto al primato ontologico ed antropologico dell’uomo rispetto alla donna, che nasce dalla costola dell’uomo e che è annoverata tra i “beni” dell’uomo.

Nel Dio cristiano il genere eletto è conclamato nell’incarnazione. La rivelazione evangelica non fa che peggiorare le cose: la Trinità, mistero dei misteri, è formata da un Padre e un Figlio, legatissimi e ... un Uccello! Nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, i moderni mormoni, addirittura Padre e Figlio sono due persone distinte e in carne ed ossa e Dio Padre si è pure spostato dalla sua “sede legale” (il misterioso pianeta Kolob) per ingravidare la madonna.

La religione islamica pullula di maschilismo allo stato brado; basterebbe pensare ad Allah: chi nutrisse qualche dubbio sulla sua virilità è subito smentito dalla circostanza che pare esista tra i musulmani un giuramento supremo sul suo fallo. Tant’è. Quanto al posto occupato dalle donne in questa religione, basti pensare alle uri, vergini servizievoli che si trovano in Paradiso, le cui occupazioni non sono difficili da immaginare.

La rappresentazione classica della divinità femminile nella mitologia da parte del Patriarcato è volutamente orrenda o sminuente. Potremmo dilungarci molto nel citare alcuni exempla molto evocativi. C’è per esempio Hela, la dea della morte nella mitologia scandinava, scaraventata nel Niflein, l’Inferno, la sala del suo trono è il Dolore, la sua tavola la Carestia, la porta del suo regno il Precipizio, nel suo letto ci sono lo Sfinimento e la Malattia, la sua tenda la Maledizione ... non deve essere proprio un diletto incontrarla! Nella mitologia greco-romana le divinità femminili del mare, le Forcidi o Graie sono raffigurate eternamente vecchie e sdentate o, per meglio dire, avevano un solo dente e un solo occhio che si scambiavano tra loro alla bisogna.

O vogliamo parlare delle Erinni, dee della vendetta in Grecia, che secondo Esiodo sarebbero nate dal sangue di Urano quando venne mutilato dal figlio Crono? Chiamate anche Furie dai Romani, erano tre: Aletto, ovvero quella che non conosce tregua e riposo, Tisifone, quella che perseguita gli omicidi e Megera, quella che respira l’odio ed erano note per agitare lugubri fiaccole mentre tra i capelli avevano delle orribili serpi aggrovigliate mentre tra le loro “specialità” c’erano la guerra, la carestia, inondazioni e siccità. Dalla parola greca Erinni, cioè colleriche e tormentatrici, deriva Eris, la Discordia, il cui nome è tutto un programma, che venne addirittura scacciata dall’Olimpo da Giove perché, l’avreste mai detto, seminava zizzania tra le divinità. La sua suscettibilità era proverbiale ed infatti per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e Teti lanciò il famoso pomo aureo tra le convitate divinità femminili con la scritta “alla più bella” gettando scompiglio tra le tre dee più quotate, Giunone, Minerva e Venere anche loro rappresentate come vanesie e litigiosette; l’esito di questa querelle getterà le basi per la futura Guerra di Troia, e abbiamo detto tutto. Ancora Venere litigherà con Proserpina perché entrambe si erano invaghite di un uomo, Adone, naturalmente bellissimo. Insomma le divinità femminili, che pure sono numerose, appaiono emotive e scostanti; la bellezza loro attribuita non fa paio con l’intelligenza.

L’Induismo, se non altro, ha cercato di temperare la damnatio memoriae delle divinità femminili attraverso qualche esercizio di quote rosa. Alla ben nota Sacra Trimurti, trinità di divinità maschili, ovvero Brahamā (il creatore), Vishnu (il preservatore) e Siva (il distruttore), manifestazione dell’Essere Supremo, corrisponde una trinità di divinità tutte femminili, la Tridevi, composta da Saraswati, consorte di Brahamā, dedita alle arti e alla cultura, Lakshmi, consorte di Visnu, dea della ricchezza e della fertilità, e Parvati, dea della bellezza e del potere nonché consorte di Shiva. Il ruolo di codeste dee appare però comunque subalterno e ausiliario ai consorti maschili, affinché il ruolo androcentrico non venga scalfito neanche qui. Quanto alla moglie di Shiva, Parvati nell’iconografia indù, oltre che essere raffigurata come moglie benevola e devota, anche a forma di yoni, che altro non sarebbe che un utero (l’idea che la donna debba stare in casa e debba occuparsi della prole non risparmia neanche le dee) altrove, tanto per non perdere il vizietto della squalificazione misogina delle donne, assume forme epifaniche terrificanti come Durga (che nella lingua sanscrita traduce “colei che difficilmente si può avvicinare”, sic!) una donna che cavalca un leone, con numerose braccia e mani che impugnano diversi tipi di armi, o come Kālī (in sanscrito letteralmente “La nera”) dal viso nero intriso di sangue, occhi arrossati, lingua di fuoco, una collana di crani attorno al collo e quattro braccia che brandiscono le solite armi da taglio.

Un tentativo di riabilitazione delle divinità femminili si assiste invero nelle moderne religioni neopagane, in particolare nei culti Wiccan dove viene riesumato il mito della Dea Madre o Grande Madre, come dir si voglia, presente in molte culture antiche fino al neolitico in molte aree del Mediterraneo e del Golfo Persico. Tutta la simbologia rimanda comunque al significato di fertilità, nascita e maternità, come Madre Terra in opposizione al Dio in cielo, la cui primazia si affermerà. Tracce del culto della Dea Madre, secondo alcuni studiosi, si possono intravedere in Iside, dea egizia della fertilità e finanche nella Vergine Maria di cattolica memoria, che rimane la più venerata tra tutti i santi, beata in quanto “serva” di un Figlio (e di un Padre), non esattamente il modello ideale per le rivendicazioni femministe.

NOTE

[1] Giuliana Sgrena, Dio odia le donne, Il Saggiatore, Milano 2016.