Perché insegnare il greco antico? In risposta a La lingua geniale di Andrea Marcolongo
Alceste Renano
Il prerequisito fondamentale d’una pubblicazione, talmente basilare, a tal punto vincolante da darsi per ovvio e scontato, è da sempre la correttezza ad un tempo contenutistica e formale. Quest’ultima, dal canto suo, coinvolge tanto il livello estrinseco, cioè a dire la conformità linguistica ed ortografica, quanto il livello profondo, ovvero l’aspetto metodologico. Ciò vale per qualsiasi opera data alle stampe, anche per quelle destinate al puro intrattenimento. È superfluo persino accennarne.
Quando, tuttavia, si tratti di scritti dal carattere scientifico, queste istanze devono farsi, se possibile, maggiormente incalzanti: in caso contrario l’attendibilità del testo risulterà più o meno compromessa, a seconda della gravità delle infrazioni riscontrate. Anche i prodotti cosiddetti “di divulgazione”, d’altra parte, nonostante a questi ultimi venga concesso un discreto margine d’approssimazione e di semplificazione, implicito nello statuto stesso del genere, una sorta di contratto stipulato col target di riferimento, non sono esenti da tale vincolo.
Quando però approssimazione e semplificazione si spingano oltre certi limiti, che sono poi i limiti imposti dalla correttezza scientifica, tanto da passare in altro che della scienza è l’opposto, ovvero nella semplice rappresentazione soggettiva priva di fondamento, in tal caso l’opera finisce con lo smarrire la propria natura divulgativa e si declassa automaticamente al livello di mero assurdo editoriale.
Dispiace, in questa sede, metter capo ad una controversia che coinvolge un libro pubblicato in prima edizione nell’ormai lontano 2016, da una casa editrice prestigiosa che conobbe fasti più che meritati e fu la prediletta d’una personalità del rango di Benedetto Croce, ma la “grancassa mediatica”, che a suo tempo promosse la pubblicazione del volumetto enfatizzandone i meriti, quasi del tutto insussistenti, impone, per così dire, l’obbligo morale della riesumazione, se non altro, allo scopo di fare giustizia delle numerose assurdità, ivi contenute, propalate per solide basi scientifiche.
Si tratta, dunque, della fatica di Andrea Marcolongo, La lingua geniale, sottotitolo: 9 ragioni per amare il GRECO [1] (di seguito LG), uscito, per i tipi degli Editori Laterza, il cui successo di pubblico risulta a tutt’oggi quanto di più clamoroso ed inspiegabile, soprattutto in considerazione degl’insulti perpetrati ai danni della lingua greca antica, quella stessa lingua di cui nelle intenzioni, espresse nel titolo del libro, s’intendeva tessere gli elogi.
L’anno seguente l’uscita del libro, ne fu scritto un altro in risposta alle molteplici stravaganze (per usare un registro alquanto benevolo) contenute nel primo. Il titolo del secondo libro è Osservazioni sulla morale linguistica ovvero Come non si deve scrivere un libro sul greco antico, disponibile integralmente sul sito della rivista L’Atea [2] (di seguito OML). Di norma i pamphlet limitano il proprio senso ad un ristretto arco temporale, oltre il quale tanto l’esercizio della critica così come il rispettivo bersaglio finiscono di conserva inghiottiti nel buco nero dell’oblio e l’interesse per il dibattito svanisce. Tuttavia il fenomeno LG ebbe a suo tempo una tale risonanza (seppur effimera), una tale ingiustificata diffusione che forse vale la pena di chiedersi il perché ed il come un prodotto simile abbia ottenuto la consacrazione delle stampe, nonché un successo francamente inspiegabile. Il caso assume contorni ancora più inquietanti là ove si rifletta più in generale sulla qualità stessa delle informazioni da cui veniamo quotidianamente bersagliati e, se aveva ragione McLuhan con il suo “the medium is the message”, nel senso del potere immenso che il mezzo esercita sull’individuale orientamento interpretativo, con tutto ciò che ne consegue, non rimane che concludere ad una certa rassegnata disperazione sui rischi ai quali è di continuo esposta la personale libertà e all’interrogativo su quali ne siano i reali spazi.
Non sarà possibile, in questa sede, riprodurre per esteso le molteplici considerazioni contenute nella replica a LG, così ampie che finivano per andare ben oltre l’oggetto specifico e contingente per spingersi a riflessioni più sottili e complesse riguardanti la superficialità, l’improvvisazione e la banalità che costituiscono la cifra dominante della fenomenologia sociale in un’epoca di parossismo mediatico. Non sarà nemmeno possibile impiegare lo stile giocoso, irriverente ed aggressivo delle OML, dove s’intendeva, con un’operazione alquanto spregiudicata, coniugare filologia ed umorismo. Ci si limiterà a riprendere le obiezioni più macroscopiche, accompagnate tutt’al più da qualche estrapolazione occasionale, per nulla sistematica.
Orbene, in ogni pubblicazione degna di rispetto si addice alla comprensione caritatevole che qualche refuso, data la peculiare natura mimetica, sfugga al controllo del revisore. Ma le occorrenze dovrebbero essere episodiche e ridotte al minimo di una o tutt’al più di due unità. Quando invece le infrazioni ortografiche, nella fattispecie spiriti e accenti, siano il prodotto d’una certa pervicacia [3], le ragioni della longanimità vengono necessariamente meno. Alquanto numerose, oltre alle sviste nella diacritica, sono le infondatezze di carattere morfologico, sintattico, semantico e perfino storico-letterario che emergono da una lettura tecnicamente sorvegliata di LG. Ma, come se ciò non bastasse, l’autrice (Andrea è nome femminile all’uso tedesco) non si limita al greco. Anche nel momento in cui passa al latino, presenta al lettore la fantasiosa correlazione “in primis … in secundis” che è semplicemente infondata dal punto di vista storico [4]. A questo punto, verrebbe da chiedersi se almeno l’italiano fosse esente da sorprese di natura analoga a quelle di cui sopra. Nossignore. A p. 66 di LG la nostra grecista c’informa:
L’italiano, diventando italiano dal latino, a sua volta lingua flessiva, ha perduto l’originaria declinazione delle parole: mantenuta solo in alcuni casi, ad esempio per distinguere le funzioni sintattiche dei pronomi personali: “io” o “tu” valgono da soggetto, “me” o “te” da complemento oggetto, “mi” e “ti” sono complemento di termine, “a me”, “a te”.
Visto quello che dichiara, poco poco ci viene il sospetto che l’autrice non abbia mai detto a nessuno: “Ti amo”. L’intento di rendere accessibile una materia ostica ed elitaria con uno stile disinvolto e ammiccante è lodevole, finché non porta a forzature ingiustificabili sul piano scientifico o anche semplicemente ad affermazioni di sintassi italiana elementare che susciterebbero lo sdegno e la giustificata riprovazione d’un qualsiasi insegnante di scuola dell’obbligo.
Queste considerazioni ci sospingono quasi d’abbrivio a riflessioni di carattere generale sull’utilità dello studio del greco antico. Certo questa lingua viene ancora insegnata nelle università e nei licei classici. In quest’ultimo caso, almeno in base alla nostra esperienza, con esiti quantomeno eterogenei ed incerti, senza dubbio più scadenti rispetto ai decenni passati.
La civiltà greca si è volta definitivamente al tramonto. Nulla oggigiorno ci è più lontano di quella remota cultura. È vero, tuttavia, che il suo codice genetico sopravvive ancora nelle nostre lingue e nella forma dei nostri pensieri. Il parlante ne viene in ogni modo condizionato. Semmai il problema sta nella consapevolezza, nell’uso, quindi, controllato e giudizioso, di strumenti ad un tempo ermeneutici e comunicativi. L’alternativa è, ancora una volta, la soggettività dei parlanti comuni, ovvero il caos.
Gli studiosi (quelli seri) continuano l’opera benemerita d’indagine sui documenti dell’antico. Ma sono come anatomopatologi che scrutano le viscere d’un cadavere: il loro sguardo, come un bisturi, è tagliente, acuto e sottile, ma freddo, distaccato. Troppo razionale. Nulla a che fare con la potenza penetrante di Nietzsche. La vita pulsante, quella cultura, anzi quella Kultur arcaica ed aristocratica di tale senso estetico, quale mai si è più conosciuto in seguito, è svanita per sempre tra i marosi perenni della storia. Quella civiltà seppe assimilare organicamente, in profondità l’insegnamento del vecchio Sileno:
La migliore fra tutte le cose è non essere mai nato e il morire è meglio del vivere. […] Di seguito a ciò la prima fra tutte le cose umane che sono possibili (ma seconda in assoluto), è che, una volta generati, si muoia al più presto [5].
Solo da questa civiltà, intrisa di pessimismo estremo, definitivo, poterono sgorgare poderose dapprima l’epica e quindi la tragedia. Noi, emunti epigoni, nonostante le carneficine del XX secolo e le belle promesse con cui s’affaccia alla ribalta della storia quello attuale, non siamo più in grado di sintonizzarci su quella lunghezza d’onda. Viviamo nell’orrore, ma non conosciamo più il segreto d’esorcizzarlo trasformandolo in espressione artistica. Preferiamo approcci più leggeri, più fatui, patinati, come l’inseguimento della persistente giovinezza, oppure il rifugio nel fantastico. Più che alessandrini, crepuscolari, siamo disposti perfino a sprofondare nella melma del kitsch, pur di non rinunciare all’inguaribile, commovente fiducia nel domani.
Quale dunque il fine dello studio del greco antico? C’è da chiarire subito un equivoco preliminare: non certo per lo scopo analogo a quello dell’apprendimento d’una qualsiasi lingua straniera contemporanea. La possibilità d’intrecciare nuovi rapporti con altri gruppi di cospecifici è lo scopo dello studio d’una lingua veicolare. All’approfondita conoscenza della nostra lingua dovrebbe mirare ogni studio appena un po’ serio del greco antico.
Ma bisognerà pure, arrivati a questo punto, sgomberare il terreno da un pregiudizio diffuso. Diversamente dall’approccio ad un idioma foresto, l’apprendimento della lingua degli antichi Elleni non comporta il contatto diretto con una parlata viva, spontanea, fresca sì, fin che si vuole, ma con un elevato residuo fisso di scorie popolari. Il greco che si studia è una lingua filtrata di poche, anzi pochissime personalità che hanno impresso alla storia, quella almeno dell’occidente, una brusca sterzata. Ed allora ecco ritornare la domanda iniziale: perché studiare una lingua morta? Può soccorrerci, all’occasione, la proposta di Kant:
Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua; pretesa, la quale riesce di rado; e prima di ricorrere a questo mezzo disperato, è prudente cercar di vedere in una lingua morta e dotta se già in essa non si trovi cotesto concetto insieme con la sua espressione appropriata [6].
Le parole del grande tedesco richiamano alla mente un termine che circola negli ospedali: “allettato”. Trattasi di conio denominativo formato su “letto” che entra in concorrenza con l’identico participio passato da “allettare”. I grammatici chiamerebbero questo neologismo “parasintetico”, come da “barca” si ha “sbarcare”. Terminologia iper-settoriale che quasi sconfina nel gergo. Eppure il vecchio greco ci potrebbe soccorrere con uno strumento lessicale più preciso e meno grottesco, immune da ogni anfibologia. Si tratta di “clinòpete”, che significa letteralmente “disteso sul letto”. Tuttavia, proprio in questa circostanza vien da credere che traspaia in tutta chiarezza la crisi della vitalità del greco antico in merito alla formazione di nuove risorse lessicali.
NOTE
[1] Andrea Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza, Bari 2016.
[2] Consultabile al link: http://www.rivistaatea.it/2-uncategorised/11-indice-per-autore.html
[3] Ivi, p. 15.
[4] Cfr. Andrea Marcolongo, La lingua geniale, cit., p. 120.
[5] Aristotele, Eudemo o Dell’anima, in Opere, vol. XI, Laterza, Bari 1984, pp. 119-120.
[6] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1991, p. 246.