Dante nel pomeriggio*

Claudio Giunta

Qualche anno fa un ministro della Pubblica Istruzione lanciò l’idea – o meglio la rilanciò, dato che ritorna con cadenza periodica, una volta a legislatura, e una volta a legislatura viene accantonata per mancanza di fondi, costo del personale, inidoneità delle strutture, eccetera – rilanciò l’idea di tenere aperte le scuole anche al pomeriggio, a beneficio degli studenti che hanno bisogno di ripetizioni o anche solo di un posto tranquillo per fare i compiti. Era un’idea giusta: le scuole non dovrebbero aprire alle otto e chiudere all’una, come le poste. Solo che a questa idea giusta il ministro ne aggiungeva un’altra relativa al modo in cui impiegare queste aperture pomeridiane: organizzare, tra l’altro, dei “percorsi di approfondimento dello studio di Dante”. Non se ne fece niente, ovviamente (i fondi insufficienti, il costo del personale, l’inidoneità delle strutture), ed è stato meglio così, perché questa invece non era una buona idea. Ma era ed è un’idea interessante perché dice, in un dettaglio, in che cosa consiste secondo chi governa il Paese una buona formazione culturale, e per quali vie la si deve perseguire. Per questo non è inutile riflettere, oltre che sulla cosa in sé, sul concetto che sta dietro alla cosa.

 La prima cosa che bisogna domandarsi è se di “più Dante” si senta davvero il bisogno: se, a scuola e fuori della scuola, il poeta nazionale non venga non si dice letto, ma proposto a sufficienza.

Di fatto, come si sa, Dante è onnipresente nei programmi a ogni livello dell’istruzione scolastica. Lo si studia per mesi nelle ore di Lettere: e non solo la Commedia ma anche, com’è giusto, la Vita nova (per la lirica antica e le origini dell’autobiografia), il Convivio (per la figura del Dante-filosofo), il De vulgari eloquentia (per la storia della lingua). In sostanza coincide con lui, con la sua opera, quasi tutto il Medioevo che la gran parte degli studenti arriva a conoscere. Petrarca e Boccaccio stanno molto più in ombra, poi il Medioevo finisce e il salto è a Machiavelli, ad Ariosto. La Commedia, poi, è il libro di lettura in classe – a seconda del tipo di scuola – per uno, due o tre anni. Lettura dei canti, parafrasi, significato allegorico eccetera. Così, per molti studenti la Commedia, cioè pur sempre uno dei libri più difficili che siano mai stati scritti, non è solo la prima grande opera narrativa con cui entrano in contatto ma anche quella su cui, finita la scuola, avranno speso più tempo: il libro della vita; per molti, l’unico libro, e questo spiega tra l’altro perché un mucchio di cinquantenni che non leggono né romanzi né poesia si commuovono riaprendo dopo decenni la Commedia o sentendola recitare: è nostalgia per i tempi della scuola più che per i libri di scuola.

È una scelta saggia? È una scelta formativa? Io non ho un buon ricordo dei miei 10+10+10 canti parafrasati al liceo classico. La letteratura che m’interessava era quella che leggevo per conto mio a casa, al pomeriggio: per lo più romanzi moderni. Ci vogliono tutte e due le cose, si dirà, ed è senz’altro vero. Ma il fatto è che molti dei miei compagni di liceo con quella seconda letteratura non sono entrati mai in contatto se non, di sfuggita, alla fine dell’ultimo anno, quando tutto viene versato in fretta nell’imbuto che porta al nefasto esame di maturità. Troppo tardi.

A questa insistenza a scuola si somma, oggi, l’insistenza dei media, perché da qualche anno a questa parte Dante va di moda. Lo si legge nelle piazze, nei teatri, nelle carceri, in televisione. Lo leggono davanti a un pubblico sempre numeroso e commosso studiosi, divulgatori, attori. E in particolare le letture di Benigni in Piazza Santa Croce a Firenze, e poi in televisione, hanno trasformato la moda in un fenomeno di massa. Tutto questo va benissimo. Ovviamente si può sempre eccepire sulla trasformazione della cultura in spettacolo e sulla contraddizione tra lettura e consumo collettivo. E ovviamente non è detto che tutti quelli che assistono alle letture di Dante in piazza o in televisione andranno poi a leggersi la Commedia, o qualsiasi altro libro. Ma una parte di loro, per quanto piccola, lo farà, e gli altri avranno passato un paio d’ore del loro tempo ricordando o imparando qualcosa, e questo è certamente un risultato positivo. L’alternativa è non fare niente.

Tutto si può dire, dunque, ma non che l’offerta non sia larga, costante e diversificata. Ci si può domandare dunque se proprio su Dante doveva cadere la scelta ministeriale, e se è proprio a lui che devono essere dedicate, oltre a quelle curricolari, delle lezioni pomeridiane, e non invece per esempio alle lingue straniere, che oggi imparano decentemente solo quelli che hanno i mezzi per pagarsi una scuola privata o dei soggiorni all’estero, cioè un’esigua minoranza della popolazione. In realtà, viene il sospetto che il provvedimento del ministero sia stato ispirato proprio dal successo mediatico del prodotto Dante. “Il successo di Benigni – devono essersi detti – indica che c’è nella società civile un nobile desiderio di poesia, e della poesia di Dante in ispecie. È giusto, dunque, che anche la scuola faccia la sua parte promuovendo più di quanto già fa la conoscenza e l’amore per il poeta nazionale”. Ma in realtà non è molto giusto. La scuola dovrebbe indirizzare la società, gli orientamenti culturali della società, non andarle al traino, e dovrebbe dare agli studenti non ciò che commuove o diverte la massa ma ciò che, a mente fredda, si ritiene utile per la loro formazione. Si può discutere all’infinito su questo – su che cosa sia meglio imparare, se sia meglio Dante o l’inglese, o qualcos’altro – ma è certo che i programmi non devono rincorrere le mode o le tendenze, anche quando queste mode o tendenze siano in se stesse positive.

 La seconda domanda che bisogna porsi è collegata alla precedente ma è più complicata. L’offerta di Dante è dunque grande, anche senza le addizioni pomeridiane; ma non può darsi allora che sia addirittura già troppa? Non può darsi che far leggere Dante a tutti, sempre, sia una cattiva strategia, se lo scopo è quello di far amare – più ancora che far conoscere – la letteratura? A me pare che sia proprio così, e che l’iniziativa del ministero sia sbagliata anche perché incoraggia, piuttosto che lo studio, il culto di un autore che siamo già tutti anche troppo propensi a trattare come una Cosa o come un Ramo dello Scibile invece che come un essere umano (lo si vede molto bene nel campo degli studi specialistici, dove questo culto dell’eroe ha generato un’intera disciplina, i Dante Studies, una decina di riviste dedicate a Dante e la bizzarra famiglia dei “dantisti”: esperti, se non di un unico libro, di un unico grande uomo).

A buona parte degli studenti delle scuole superiori Dante non dice assolutamente niente, e questo è normale. È difficile che dei quindicenni che in vita loro non hanno mai letto un romanzo possano apprezzare un linguaggio così difficile o trovare sublimi scene e figure che per mancanza di esperienza – della vita e della letteratura – non possono che trovare strampalate o noiose. Per loro la lettura di Dante, in classe o a casa, è una punizione, una punizione che spesso avrà l’effetto contrario rispetto a quello sperato, cioè li allontanerà dalla letteratura. A una parte non piccola degli studenti, invece, Dante piace. Il loro piacere è spesso ingenuo, superficiale, immediato: non è un caso se gli episodi di Paolo e Francesca (l’amore), di Ulisse (l’avventura) e del conte Ugolino (il grand-guignol) sono sempre i più amati e ricordati. Non è un caso e non è un errore, perché questi episodi vanno letti e apprezzati proprio con l’ingenuità del lettore delle favole o dei feuilleton: con l’urgenza di sapere com’è andata a finire. Che degli adolescenti possano andare molto più in là (e interessarsi, poniamo, alle sottigliezze teologiche della Commedia, ai rapporti con Aristotele, alla geografia dell’aldilà, e insomma a tutta quella “struttura” che potrebbe essere l’oggetto di lezioni integrative) mi sembra improbabile, e forse non è neppure augurabile. Le fissazioni sono sempre una brutta cosa, e tanto più lo sono nell’adolescenza, quando davanti allo studente si aprono orizzonti sconfinati di libri, idee, opere d’arte. “Sapere bene la Commedia” non è il primo obiettivo che la scuola deve porsi. Non sono particolarmente simpatici, né mostrano di avere una particolare vocazione per la letteratura, quei quindicenni che si deliziano con la pastorella di Cavalcanti o con le novelle di Boccaccio. Spesso sono intelligenze pigre, poco originali, pronte a giurare su qualsiasi articolo di fede che venga loro proposto, ivi compresa la fede nella “voce eterna dei classici”. E non sono particolarmente interessanti i tanti docenti universitari di letteratura italiana che passano la vita a glossare la Commedia, di lectura Dantis in lectura Dantis, ma ignorano qualsiasi cosa non rientri nell’orizzonte della loro disciplina, o nella lista dei libri che la scuola ha dichiarato una volta per tutte adatti ad essere studiati. Forse dovremmo cominciare a chiederci se anche nelle università non stiamo allevando dei conformisti che non avranno niente di originale da dire – a cui proibiamo di dire qualcosa di originale – non solo sulla letteratura o sulla vita ma neppure sul canone che imponiamo loro come un giogo a partire dai diciott’anni. Forse arrivare alla voce eterna dei classici passando attraverso altre esperienze, altre letture, potrebbe rendere le cose un po’ più interessanti, potrebbe addirittura aiutarci a sentire per davvero la voce eterna dei classici.

Nell’ossequio che, a scuola e all’università, tutti rendiamo a Dante e alla letteratura premoderna in generale c’è molta retorica. Questa letteratura parla quasi sempre di cose che hanno smesso di riguardarci da tempo: lo stato delle anime dopo la morte, la vita a Firenze durante la peste del 1348, le avventure di un pazzo che crede di essere un cavaliere errante. Dunque per prima cosa, quando se ne parla, un po’ di sincerità. Ad esempio (un esempio tratto ovviamente da uno scrittore, non da un accademico): “Benché sia chiaramente un insuperabile capolavoro, Don Chisciotte soffre di un difetto piuttosto grave – quello di essere totalmente illeggibile. Il sottoscritto dovrebbe saperlo, perché ha appena finito di leggerlo. Il libro è pieno di bellezza, di fascino, di sublime comicità; ma per lunghi tratti (circa il 75% del totale) è anche inumanamente noioso” [1].

Nei casi in cui la letteratura premoderna parla di cose che ci riguardano, lo fa in un modo che non facilita la condivisione ma la scoraggia: adoperando i versi invece della prosa, o parole incomprensibili, o delle immagini astruse. Queste barriere, queste difficoltà, si superano con lo studio. Dopo aver studiato per qualche anno si entra nel mondo degli artisti e dei pensatori del passato, si capisce il loro linguaggio, si vede che i loro interessi e le loro passioni non erano molto diversi dai nostri. Oppure al contrario si scopre che i loro interessi e le loro passioni erano in effetti molto diversi dai nostri, e in questa differenza si trovano nuovi motivi per apprezzare le loro opere: il presente cessa di essere la nostra unica dimensione, la nostra vita si arricchisce nel confronto con vite così lontane nello spazio e nel tempo. È allora che cominciano ad avere un senso quegli elementi, quei fatti espressivi che sulle prime ci avevano spiazzato: il linguaggio formulare della poesia antica, i cieli dorati dei dipinti medievali, le cadenze sempre uguali della polifonia sacra; è allora che penetriamo nelle convenzioni proprie di un altro universo artistico.

Per fare questo, per familiarizzarsi con l’arte di altre epoche, non c’è altro posto che la scuola. Perciò è giusto che tutti gli studenti, quale che sia il loro percorso di studi, sappiano almeno dell’esistenza di questo patrimonio e siano invogliati a conoscerlo, anche se non li interessa e anche se non lo capiscono. Il presente li assedia da ogni parte, ed è bene che la scuola continui a mettere sotto i loro occhi opere e idee che al presente non appartengono: nessun altro lo fa. Ma non bisogna illudersi troppo circa gli effetti di questo apprendistato. Ovvero: l’apprendistato non dovrebbe ignorare il problema della distanza, né dare per scontata la leggibilità di opere che sono, sotto molti punti di vista, illeggibili. Quando si tratta di autori come Dante o Cavalcanti o Boccaccio o Machiavelli, il piacere e l’ammirazione sono spesso indotti dall’insegnante: sono grandi scrittori, dunque bisogna leggerli e farseli piacere, anche quei sonetti che sembrano insulsi e sdolcinati (che devono essere insulsi e sdolcinati per un lettore moderno), anche le parti più noiose della Commedia. Così, gli studenti vengono educati a trovare commoventi o appassionanti o esilaranti opere “classiche” che essi hanno invece ottime ragioni per trovare incomprensibili.

 Ora, quei mondi così lontani restano importanti per noi. Ma per giustificare questa affermazione non dovremmo parlare dell’eternità del Bello o del Giudizio dei Secoli; dovremmo usare piuttosto parole simili a queste di Alfonso Reyes: “Quando un sistema di espressioni si consuma per il semplice passare del tempo e non perché manchi di per sé di qualità, il massimo che possiamo dire è: ‘Quelle cose che hanno emozionato gli uomini di ieri, perché per loro erano invenzioni e sorprese, a me non dicono più nulla. Ho assorbito a tal punto questo alimento che ai miei occhi esso si confonde con le cose ovvie. Ringrazio chi mi ha nutrito e continuo per la mia strada in cerca di nuove conquiste’” [2]. È questo il giusto atteggiamento da tenere nei confronti delle opere e delle idee del passato più remoto. Non bisogna negare la distanza, o fare finta che l’Arte ci parli purché la si voglia ascoltare, o che i valori della Tradizione debbano essere per forza anche i nostri: perché non lo sono. Al contrario, il modo giusto per capire è proprio quello di riflettere e far riflettere gli studenti su queste differenze.

Ma al di là dell’apprendistato, della giusta formazione culturale, non dovremmo neppure dimenticare che gli adolescenti vanno soprattutto conquistati all’arte e alla letteratura, e che se ci si ostina a propinare i “classici” Dante, Manzoni o Svevo come se senza di loro non ci fosse salvezza essi finiranno per identificare l’arte seria con l’arte noiosa, e cercheranno altrove – cinema, televisione, musica pop – le occasioni per divertirsi o per commuoversi o per pensare. Vale a dire che a scuola bisogna sì parlare della letteratura come del nostro patrimonio storico, ma bisogna anche usare la letteratura per ciò che essa ha da dire su come dovremmo vivere la nostra vita, dunque per l’influenza che essa può avere sulle opinioni e sui sentimenti degli studenti, e non c’è niente di male ad ammettere che, per questo scopo, Dante, Petrarca e Boccaccio sono meno utili di autori, anche meno grandi, che appartengono come noi a questa età del mondo. Gli elenchi sono superflui, ma è chiaro che Il rosso e il nero, o Orgoglio e pregiudizio, o Il giorno della civetta parlano alla coscienza di un adolescente con un’immediatezza e una verità che i capolavori del Medioevo non possono avere. E converrebbe anzi allargare il più possibile il concetto di letteratura, ampliare il canone delle letture includendovi, più di quanto accada adesso, il genere del saggio: al di qua della filosofia, e senza che per questo l’insegnamento diventi ideologico, è bene che gli studenti capiscano non solo come si racconta una storia immaginaria o si scrive una poesia (un impegno che quasi nessuno di loro affronterà mai) ma anche in che modo si argomentano le proprie opinioni (un impegno che quasi tutti invece dovranno affrontare): dunque la Storia della colonna infame accanto ai o al posto dei Promessi sposi, Omaggio alla Catalogna accanto a o al posto di 1984, I sommersi e i salvati accanto alla o al posto della Tregua

La mia impressione è che nella scuola di oggi la parte dell’erudizione sia ancora troppo più sviluppata rispetto alla parte in senso lato formativa: quella che cura cioè l’educazione delle emozioni, la capacità argomentativa, la scrittura. I programmi di storia della letteratura sono così lunghi e minuziosi (e basta guardare molti dei manuali usciti in questi decenni: migliaia di pagine in cui c’è tutto) che si portano via quasi tutto il tempo che si può dedicare all’istruzione letteraria. Il risultato è che anche le matricole di Lettere possono avere una discreta infarinatura di storia letteraria e possono essere ben addestrate all’ammirazione per Dante, ma spesso non conoscono quasi nessuno dei grandi libri moderni che farebbero di loro non dei migliori letterati ma delle persone più intelligenti. Ma questo è, precisamente, lo scopo della scuola: ed è soprattutto negli istituti tecnici e professionali, là dove cioè la letteratura ha un’importanza secondaria, che il curriculum tradizionale (storia della letteratura + classici) si dimostra inadeguato. Qui, soprattutto, il poco tempo che c’è a disposizione non dovrebbe essere speso studiando (male) i presunti capisaldi di una disciplina che gli studenti dimenticheranno all’istante una volta conclusi gli studi. Comunicare un’idea di letteratura come qualcosa di vivo, di utile per il presente, degno di essere apprezzato per sé, e non per obbligo scolastico – questo bisognerebbe riuscire a fare, anche a costo di sacrificare un po’ d’informazioni sulla scuola siciliana, le “tre corone”, la disputa tra classici e romantici.

 La terza e ultima domanda che va fatta è quella più importante. Quale idea di istruzione riflette la decisione di erogare due milioni di euro (a questa somma pensava il ministro) per lezioni pomeridiane su Dante? Tralasciamo le questioni pratiche: chi avrebbe dovuto tenere queste lezioni? Gli stessi insegnanti che leggono Dante in classe la mattina? Sarebbero stati allora degli approfondimenti, delle riletture? Oppure si volevano invitare degli esperti? In un Paese in cui ogni villaggio ha il suo dantista – di solito un monomaniaco che ha scoperto il segreto del “cinquecento dieci e cinque” o del veltro – è una prospettiva allarmante. O i “dantisti” prediletti dai media sarebbero partiti in tournée? Lasciamo da parte la pratica e veniamo al Concetto.

Un tale – così comincia un racconto di Cortázar – “scoprì che la virtù era un microbo rotondo con tantissime zampe. Immediatamente fece bere a sua suocera una gran cucchiaiata di virtù” [3]. Se al posto della parola virtù mettiamo la parola cultura avremo di fronte un’immagine abbastanza precisa di ciò che oggi è e deve essere, secondo molti, il processo di apprendimento. Non è strano che questo modello coincida con l’idea di acculturazione che trapela dai media, che è quella di un’infinita varietà di prodotti, con un’infinita libertà d’accesso: tanta abbondanza di libri, musica, informazioni, come può non essere un segno di progresso? Ora, la cultura è anche qualcosa che va preso a cucchiaiate. Gli studenti devono assimilare un gran numero di nozioni e di idee, e perché questo avvenga è necessario prima di tutto che queste nozioni e idee vengano comunicate loro con ogni mezzo disponibile. Ma è sbagliato pensare che il problema dell’acculturazione sia, oggi, un problema legato alla quantità dell’offerta: che insegnare Dante anche nel doposcuola possa avere qualche riflesso sulla qualità dell’istruzione. L’offerta, fuori e dentro la scuola, è anche troppa. Ed è sbagliato pensare che la soluzione dei problemi stia nel far leggere altri libri, o nel far meditare sul Libro. Non è somministrando “più cultura” – la pillola-Dante, il santino-Dante – che si aiutano gli studenti a maturare.

Il contesto e il modo in cui si svolge il processo di apprendimento sono più importanti della cosa in sé. Dire le cose, dare informazioni, discutere idee, perorare insomma la causa della “buona cultura” è perfettamente inutile se chi ascolta non è messo nelle condizioni di capire e di poter essere persuaso della bontà della lezione che sta ricevendo. Perché ciò avvenga, quello che conta non è tanto la sostanza della lezione: Dante, gli antichi romani, la storia del Novecento. Non c’è alcuna ragione reale perché questi rami del sapere debbano essere giudicati in astratto più importanti di altri, come la storia del calcio, la musica pop, la sit-com vista in televisione la sera prima. Al contrario, tutto porta a credere che queste altre cose siano più importanti e più utili per un’esistenza che voglia essere adeguata ai tempi. Quelle che contano sono le circostanze, cioè il luogo in cui le lezioni vengono impartite e le persone che le impartiscono. Nelle società evolute, il normale processo di apprendimento avviene a scuola. È la scuola che decide che cosa vale la pena di imparare e qual è il modo migliore per farlo. Ed è un percorso lento e graduale: chi ci lavora sa che l’istruzione non può essere né data né presa a cucchiaiate come una medicina, che è invece il risultato di una lunga applicazione. In questo processo, le lezioni su Dante non valgono molto più di quelle su qualsiasi altro argomento, perché ciò che importa non è creare degli specialisti ma comunicare una certa idea del sapere. Perciò, svilire il ruolo della scuola e degli insegnanti, togliere autorevolezza all’ambiente in cui ha luogo l’apprendimento, significa togliere dignità e importanza alle cose stesse che dovrebbero essere apprese: perché non esiste nessuna giustificazione per l’apprendimento disinteressato al di là di quella che s’incarna nei luoghi e nelle persone che trasmettono la conoscenza.

Curare questi luoghi e queste persone è l’unica cosa sensata da fare. La linea di difesa va tracciata non tanto affermando l’intrinseco valore delle cose che si insegnano a scuola, dato che si tratta di un valore in sostanza indimostrabile, né proteggendo il curriculum tradizionale dalle derive attualizzanti, quanto ribadendo l’importanza della mediazione. È difficile: perché la cura, per come va intesa, non consiste semplicemente nell’aumento degli investimenti nella scuola ma nel loro buon uso. Molti giovani che sarebbero ottimi insegnanti rinunciano a questa professione non tanto perché è malpagata quanto perché le norme di reclutamento sembrano premiare l’anzianità e la tenacia piuttosto che la competenza, e perché si tratta di una professione che non dà praticamente nessuna prospettiva di carriera, e in cui non si premia a sufficienza il lavoro ben fatto, mentre non si punisce a sufficienza quello fatto male. È molto difficile. E si capisce perciò che il problema dell’istruzione venga affrontato con ricette che ci si augura di più rapida efficacia, e che promettono di rendere secondaria, se non superflua, la mediazione umana: nuovi ritrovati didattici, nuove alchimie tra le discipline, i miracoli del digitale. Ma sono palliativi; o, come Dante nel pomeriggio, è retorica.

NOTE

* Il brano è tratto  da E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Bologna, Il Mulino 2017.

[1] Martin Amis, The War Against Cliché. Essays and Reviews 1971-2000, New York, Vintage International 2001, p. 427.

[2] Alfonso Reyes, La experiencia literaria, México, Fondo de Cultura Económica 1962, p. 204.

[3] Julio Cortázar, Storie di cronopios e di famas, Torino, Einaudi 1997, p. 123.