La selezione sessuale: la teoria dimenticata di Darwin. Un percorso bibliografico
Maria Turchetto
Prendo lo spunto da un libro uscito lo scorso anno, a cui ho rubato il sottotitolo: Richard O. Prum, L’evoluzione della bellezza. La teoria dimenticata di Darwin (Adelphi 2020). L’autore è un ornitologo e uno dei massimi birdwatcher del mondo – tra l’altro, è stato uno dei primi a sostenere che gli uccelli derivano dai dinosauri. E gli uccelli, nella “teoria dimenticata di Darwin”, che occupa la seconda e più cospicua parte de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, sono importanti. Ai caratteri sessuali secondari degli uccelli e ai loro comportamenti nuziali Darwin dedica ben quattro capitoli di osservazioni e considerazioni dettagliate, le cui fonti sono – come in L’origine delle specie – sia testimonianze di allevatori, sia dati raccolti da naturalisti. Anche lo stile di questa seconda parte richiama – assai più dei capitoli dedicati all’uomo – quello de L’origine delle specie: quel ragionare testardo e meticoloso che sviscera il dato, considera ogni possibile obiezione, si misura con ogni difficoltà senza saltare alle conclusioni. Come scrive Prum, Darwin è stato “un intellettuale ancora più eccezionale, più creativo e più acuto di quanto lo abbiamo ritenuto finora”. Al punto che, dopo aver formulato una teoria che rappresenta a tutti gli effetti una rivoluzione scientifica basandola sul principio della selezione naturale, si sente in dovere di riformularla e completarla sulla base di un altro principio, quello della selezione sessuale. Per spiegare la differenza tra le razze umane, dice Darwin nell’Introduzione all’Origine dell’uomo, dunque come argomento a favore del monogenismo nell’ambito di una discussione che all’epoca era ancora accesa e aveva una forte connotazione politica. Ma non solo, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che, come scrive quasi scusandosene, “la parte della presente opera che tratta la selezione sessuale si estende sproporzionatamente rispetto alla prima parte”. C’è una ragione più profonda: il principio della selezione naturale non basta a dar conto della enorme varietà che la natura ci mostra.
Perché allora questa parte della teoria di Darwin è stata “dimenticata”, come titola Prum? Forse sarebbe più proprio dire che all’epoca fu addirittura decisamente rigettata, come scrive Andrea Pilastro in Sesso ed evoluzione (Bompiani 2007), sostenendo che l’importanza de L’origine dell’uomo risiede proprio nel fatto che “propone l’esistenza di un’altra forma di selezione, diversa dalla selezione naturale, che non si basa sulla diversa capacità degli individui di sopravvivere, ma sul loro diverso successo nella riproduzione sessuale […]. Corna, zanne e speroni evolvono perché permettono ai maschi di lottare più efficacemente per la conquista delle femmine. Colori, piumaggi ornamentali, canti ed esibizioni di corteggiamento servono invece al maschio a rendersi attraente agli occhi della femmina, che sceglie per accoppiarsi solo i maschi con ornamenti più sviluppati. L’idea che le femmine animali possiedano un senso estetico, in un’epoca nella quale le donne non potevano neppure votare, non era una teoria che potesse avere vita facile. E infatti venne accolta con freddezza, quando non respinta con sprezzante sarcasmo, dalla quasi totalità dei colleghi di Darwin, compreso Alfred Wallace, il co-scopritore della teoria della selezione naturale”. La riscoperta della teoria della selezione sessuale avvenne, secondo Pilastro, solo verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso. E fu parziale.
Come risulta chiaramente dal passo di Pilastro citato, sono due gli aspetti salienti della selezione sessuale. Il primo è lo sviluppo nei maschi di armamenti, ossia di caratteri e comportamenti funzionali alla competizione con altri maschi per la conquista delle femmine (grande stazza, palchi di corna, zanne, versi minacciosi): la selezione intrasessuale. Il secondo è lo sviluppo di ornamenti, caratteri e comportamenti che hanno lo scopo di attrarre le femmine (colori sgargianti, canti e danze di esibizione): la selezione intersessuale. Il primo aspetto fu più facilmente accettato, anche perché non rappresenta una contraddizione rispetto al principio della selezione naturale: una maggiore dotazione di armamenti può tornare utile anche nella difesa dai predatori. Il secondo aspetto trovava invece più forti resistenze: lo sviluppo di vistosi ornamenti può essere infatti un handicap alla sopravvivenza. Si fece strada allora una spiegazione “adattazionista”: gli ornamenti forniscono informazioni precise sulla qualità e sulla condizione fisica dei potenziali partner. Come scrive argutamente Prum, secondo questa interpretazione l’incredibile esibizione del maschio di paradisea superba “è come il profilo su un sito internet di appuntamenti per pennuti, e fornisce una serie di informazioni che una femmina di paradisea deve valutare per effettuare la sua scelta. È di buona famiglia? È cresciuto in un buon nido? […] Com’è la sua dieta? Si prende cura di sé? È affetto da malattie trasmissibili alla prole?”. E nelle specie di uccelli che formano coppie durature (non è questo il caso di paradisea) il “profilo” risponde anche ad altre domande “Sarà in grado di difendere […] il territorio? Di procurarci da mangiare? Sarà un buon padre?”. La bellezza, insomma, sarebbe solo funzionale all’utilità. Più precisamente, funzionale alla riproduzione.
Devo dire che anche Andrea Pilastro, il cui libro è per altro molto apprezzabile per la completezza con cui spiega – con esemplare chiarezza – le ragioni evolutive del prevalere in natura della riproduzione sessuata, esagera a mio avviso nell’interpretare ogni comportamento sessuale in termini di funzionalità alla riproduzione, o meglio alla trasmissione del patrimonio genetico. Sembra quasi che ogni animale – dagli scarabei stercorari alle vipere, dai topi ai pesci – porti, un po’ come le nostre trisavole, una camiciola da notte con ricamata la scritta “non lo fo per piacer mio ma per massimizzare la trasmissione del mio patrimonio genetico”. Quest’idea sposa il filone di pensiero – molto criticato da cinquant’anni a questa parte – noto come neo-darwinismo o anche (con un termine dalla chiara accezione negativa) ultra-darwinismo. Si tratta di una versione della Sintesi Moderna – ossia della sintesi tra la nozione darwiniana di selezione naturale e la moderna genetica – che, nelle sue versioni più estreme, ha spostato l’accento sulla genetica fino a sostenere l’idea per cui “una pulsione ineluttabile, una forza necessaria spingerebbe gli organismi a cercare di diffondere i propri geni, o i geni a diffondere il più alto numero possibile di se stessi. Ed esiste un concetto ancora più diffuso per cui questo tentativo di trasmettere i geni dovrebbe costituire la ‘sostanza’ della vita, la ragione ultima per cui, dai batteri all’uomo, fanno quello che fanno”. La citazione è tratta da Niles Eldredge, Perché lo facciamo. Il gene egoista e il sesso (Einaudi 2005). Gli organismi viventi, insomma, vivrebbero per riprodursi: con quest’idea, sostiene Eldredge, “ci si avvicina in modo pericoloso al rischio di attribuire uno ‘scopo’ […] ai sistemi viventi”, tradendo, nella sostanza, l’impianto concettuale della teoria di Darwin.
Ovvio, nessuno mette in dubbio che ci sia un rapporto di causa ed effetto tra comportamenti sessuali e riproduzione – anche se, come osserva ancora Eldredge, c’è un nesso causale anche tra comportamenti sessuali e malattie veneree, ma nessuno ci viene a dire che facciamo sesso allo scopo di contrarle e diffonderle. Il problema è che dare troppo per scontato il primo di questi due nessi conduce a interpretare ogni carattere e ogni comportamento legato alla sessualità in modo finalistico, il che rappresenta, come ha sostenuto tutta la scuola che fa capo a Stephen J. Gould, una forzatura e una distorsione della teoria dell’evoluzione. In generale, secondo Gould, è un errore cercare a tutti i costi una finalità adattativa primaria per ogni carattere o comportamento dei viventi: alcuni caratteri rappresentano adattamenti secondari (exaptation), come il celebre “pollice del panda”, altri sono il risultato di riconfigurazioni anatomiche dovute ad altri adattamenti, come il mento aguzzo che caratterizza Homo sapiens, cui sarebbe ben difficile trovare uno “scopo”: non serve proprio a nulla. Eppure piace: gli esemplari della nostra specie col mento sfuggente non sono molto apprezzati.
Per tornare al libro di Prum da cui sono partita, direi che si colloca senz’altro in questo filone interpretativo. “Da biologo evoluzionista – scrive l’autore – sono perfettamente consapevole del fatto che la selezione naturale è una forza fondamentale e onnipresente in natura. Non nego la sua immensa importanza. Ma l’adattamento tramite selezione naturale non è sinonimo di evoluzione. La selezione naturale non basta a spiegare buona parte dei processi evolutivi […]. L’evoluzione è spesso assai più stravagante, legata al contesto e alle circostanze individuali e meno prevedibile e generalizzabile di quanto ci si aspetterebbe sulla base del solo meccanismo di adattamento”.
Un caso chiaramente inspiegabile in termini di adattamento finalizzato alla riproduzione è quello dell’orgasmo femminile, magistralmente trattato nel libro di Elisabeth Lloyd Il caso dell’orgasmo femminile. Pregiudizi nella scienza dell’evoluzione (Codice Edizioni 2008), testo citatissimo dallo stesso Prum. L’autrice prende in esame una vastissima letteratura – dalla ricerca sessuologica, alla psicologia, alla biologia evoluzionista – sul tema dell’orgasmo femminile, criticandone la debolezza dovuta ai preconcetti con cui è stato affrontato il problema. La domanda che si sono posti gli studiosi, in pratica, è una sola: a che cosa serve l’orgasmo femminile? Ci sono state risposte di vario genere: alcuni hanno sostenuto che serve a cementare il rapporto di coppia, utile a garantire lunghe cure parentali alla nostra prole che ne è particolarmente bisognosa; altri hanno proposto che le contrazioni che accompagnano l’orgasmo femminile hanno lo scopo di risucchiare lo sperma nella vagina per favorire la fecondazione; altri ancora che tale funzione è svolta invece dal rilassamento che segue l’orgasmo.
In ogni caso, abbiamo sempre a che fare con il fallace ragionamento adattazionista (se un carattere c’è e si è conservato nel corso dell’evoluzione deve per forza servire a qualcosa) e funzionalista (dando per scontato che la funzione delle femmine è la riproduzione sono macchine per fare figli). Elisabeth Lloyd smonta questo ragionamento e propone un’ipotesi diversa: l’orgasmo femminile è un “sottoprodotto evolutivo”, di fatto inutile come il nostro mento aguzzo, “esiste per puro divertimento, è qualcosa di inutile per la conservazione della specie”. Una conclusione – devo dire – che mi piace molto.
Per Prum c’è qualcos’altro: quella che chiama “evoluzione estetica”. Le femmine delle varie specie non sono – appunto – macchine per la riproduzione, che scelgono il partner solo per massimizzare l’utile riproduttivo. Possiedono un senso estetico, creano e seguono in questo senso mode arbitrarie, che poi si alimentano grazie al vantaggio genetico di fare figli maschi alla moda che a loro volta piaceranno di più alle femmine della specie.
Anche quest’idea – devo dire – mi piace molto. E la trovo coerente con un’altra idea darwiniana presente in L’origine dell’uomo e la selezione sessuale. In quest’opera Darwin contesta un’idea sostenuta da Alfred Wallace, il co-scopritore della teoria della selezione naturale che abbiamo già evocato in questa nota. In un’opera del 1864, L’origine delle razze umane e l’antichità dell’uomo dedotte dalla teoria della selezione naturale, Wallace aveva posto la questione di cosa distingua davvero l’uomo dagli altri animali, dando una risposta molto (troppo, forse) semplice: in natura gli animali si trovano in una situazione di dipendenza individuale dal proprio stato e dal proprio ambiente; l’uomo invece conosce la cooperazione e la divisione del lavoro, è “sociale e compassionevole”, aiuta i deboli e collabora per far fronte alle difficoltà: queste sono le “facoltà veramente umane”, all’origine del nostro senso morale, che rendono l’uomo “un essere a parte”. Darwin ribatte che i comportamenti sociali, cooperativi e altruistici si riscontrano anche negli animali. Non c’è dunque in questo senso una discontinuità forte, un “salto ontologico” (come lo definì papa Wojtyla nel Messaggio del Santo Padre alla Pontificia Accademia delle Scienze del 1996, che rappresenta probabilmente la maggiore apertura della Chiesa cattolica alla teoria dell’evoluzione) tra l’animale e l’uomo, ma solo una differenza di grado. Perché allora dovrebbe essere una prerogativa esclusiva dell’uomo il senso estetico, se non per l’ennesima manifestazione di boria della nostra specie?